Intervista a Enrica Bricchetto
di Miriam Begliuomini
Inclusivo, collaborativo, multidisciplinare, interattivo: sono soltanto alcuni degli aggettivi utilizzabili per descrivere il metodo degli Episodi di Apprendimento Situato (EAS) messo a punto da Pier Cesare Rivoltella (Università Cattolica di Milano) e raccontato da Enrica Bricchetto in Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo nella scuola secondaria di II grado (Brescia, Morcelliana – Els, 2016). Enrica Bricchetto, Dottore di Ricerca in Storia contemporanea e specializzata in Media Education, si è formata alla scuola di Rivoltella e parla dall’alto di una lunga esperienza di docenza nelle scuole secondarie.
In cosa una lezione EAS è diversa da una lezione tradizionale?
Il metodo EAS si propone di essere un modello alternativo di far scuola. Da un lato tenta di rispondere alla crisi della lezione frontale e della lezione partecipata con domanda-risposta. D’altro canto è un modo per integrare nel processo di apprendimento tablet e cellulari che, di fatto, sono il modo con cui i nostri ragazzi oggi entrano in contatto col mondo. Applicare gli EAS alla disciplina storica è poi particolarmente fruttuoso perché consente di creare legami con l’attualità e di rompere lo stereotipo per cui la storia è un elenco di date e nomi, senza alcuna utilità.
Il metodo EAS prevede di individuare un determinato argomento (come, ad esempio, il Mediterraneo) a partire dal quale costruire una lezione interattiva, anche grazie alla tecnologia di cui le scuole e i singoli studenti dispongono; l’idea di base è quella di un sapere che si costruisce progressivamente e in modo collaborativo: il ruolo dell’insegnante è più quello di programmare e coordinare il lavoro che non quello di trasmettere dei contenuti.
Nella fase preparatoria il docente assegna un lavoro di ricerca da svolgere a casa: gli allievi sono tenuti a lavorare sui materiali forniti (documenti da leggere o video da guardare e questionari o griglie da compilare) e a caricare i frutti su una cartella condivisa online. In classe, poi, l’insegnante interviene con una breve lezione sull’argomento mettendo a fuoco i nodi concettuali principali, riprendendo quello che è stato fatto a casa e aggiungendo elementi di analisi. Questa sorta di cornice si chiude con un video-stimolo, un breve video che predispone emotivamente la classe al lavoro. Prende poi il via l’attività vera e propria, la fase operativa: anziché ascoltare e prendere appunti sono gli studenti in prima persona, individualmente o in gruppo, a fare ricerca, informarsi e poi sintetizzare quanto appreso in mappe concettuali o schemi oppure a produrre veri e propri artefatti digitali. L’ultima fase è quella del debriefing in cui l’insegnante riprende le fila del discorso, scioglie eventuali dubbi sorti durante l’attività e mette a fuoco i punti centrali del discorso.
Quale risposta viene dagli allievi, a fronte di un metodo che richiede loro un impegno notevole a casa?
È vero che spesso è difficile spronarli nel lavoro a casa: in questo caso bisogna preparare il terreno lavorando bene in classe. Le conoscenze si costruiscono pian piano: quel che conta è ottenere la fiducia dei ragazzi e costruire con loro una relazione forte, coinvolgendoli, a partire dalle ore di scuola. Si pensi alla lezione tradizionale, che prevede di ascoltare, prendere appunti, fare compiti a casa e verifiche. Spesso si crea una spirale negativa di compiti non fatti, votacci e conseguenti frustrazioni che sfociano in bocciature. E il risultato finale qual è? La dispersione scolastica. Bisogna trovare un’alternativa. La figura dell’insegnante deve saper suscitare interesse, perché solo così si può sbloccare il processo culturale. Con la modalità attuale è proprio la cultura a rimetterci ed è sbagliato vedere nella tecnologia solo un elemento di distrazione. Forse un po’ di responsabilità è anche nostra: andare incontro ai ragazzi non vuol certo dire fare solo le cose che piacciono loro ma significa, anche attraverso le cose che piacciono loro, avvicinarli alla cultura e a un modo quanto più critico e attivo possibile di interpretare il mondo in cui vivono.
Quale risposta, invece, dai docenti?
In sede di formazione è un modello che rende molto. Ci sono docenti che dicono che la formazione EAS è stata la più significativa di tutta la loro esperienza. Il problema sta poi nell’applicazione. È un metodo che convince ma spaventa al tempo stesso, perché richiede uno sforzo di organizzazione. Ma se ci si prepara per le lezioni frontali ci si può preparare altrettanto per una lezione EAS. In più si tratta di un metodo che permette di creare una collaborazione fra colleghi, di caricare il materiale online e condividerlo con altri, che possono usarlo così com’è oppure integrare e modificare. Ma c’è certamente bisogno di uno sforzo, uno stimolo che vada oltre il semplice basarsi su un libro di testo per spiegare.
In cosa il metodo EAS può costituire un’alternativa innovativa rispetto alla lezione tradizionale?
Gli EAS uniscono un metodo inclusivo e l’apporto della tecnologia. La lezione frontale c’è ma è circoscritta, il professore fornisce solo un contributo parziale alla costruzione della conoscenza: lo scopo finale è la costruzione di competenze (il saper fare, cercare, trasferire quanto imparato). Si tratta di un approccio didattico personalizzato e inclusivo: penso soprattutto alle classi in cui ci sono DSA, stranieri appena arrivati o magari residenti in Italia da molti anni ma non nati qui. Attraverso l’EAS, che prevede una preparazione mirata ed eventualmente attività diverse si può rispondere alle esigenze di tutti.
Il metodo EAS ha poi fra le sue prerogative quella di creare un contatto quanto più possibile continuo con la realtà esterna alla scuola, con l’attualità. Si tratta di uscire dalla semplice e astratta nozione: la conoscenza è certamente fondamentale ma anche il rapporto con la vita lo è, così come la relazione con la vita dello studente. Per le materie scientifiche è quasi più semplice.
L’altro grosso elemento di novità è l’introduzione della tecnologia come parte integrante del percorso formativo.
È proprio così: app, video vengono usati al fine di rendere i ragazzi capaci di ricerche mirate, analisi dei siti, selezione delle fonti attraverso lo strumento del cellulare, che è parte del loro corpo, o nel laboratorio informatico a scuola. La sfida attuale non sta nel rifiuto della scuola da parte dei ragazzi; il problema è che sono immersi in un mondo sovraccarico di storie e informazioni – spesso molto, troppo accattivanti – che non riescono a filtrare e fissare e che sono in concorrenza con la scuola, un po’ invecchiata.
Oggi si sta nel mondo anche e soprattutto attraverso i social. La scuola ha il dovere di entrare nel mondo digitale: è il docente che deve dire cosa seguire (penso a Internazionale, Il Post, il portale Treccani e Rai) e dove trovare elementi interessanti e validi. Si dovrebbe tentare di rendere possibile un uso selettivo e “stabilizzante” della tecnologia. A fronte del bombardamento di informazioni cui tutti siamo sottoposti bisogna insegnare ai ragazzi a crearsi delle mappe, delle strade nonché degli spazi di concentrazione, fuori dallo zapping continuo. Certamente tutto il discorso degli EAS e dell’apprendimento di un metodo non deve far dimenticare l’importanza dell’assimilazione di contenuti: ma anche in questo senso gli EAS, con il ripetuto tornare sulle stesse cose, permettono un’assimilazione più in profondità.
Attraverso il metodo EAS la scuola può venire incontro alla complessità delle attuali classi?
Oggi la formazione dei ragazzi passa attraverso i media, la famiglia e la scuola. La scuola in alcuni casi integra, in molti sostituisce: non in tutti i contesti famigliari è possibile creare le condizioni per il formarsi di una cultura adatta al mondo di oggi. Quando si fa fatica ad arrivare alla fine del mese o si proviene e si esprime una cultura molto diversa, magari in una lingua altra da quella del paese in cui si vive, è difficile, per non dire impossibile, rispondere alle richieste della scuola. Per questa ragione l’EAS in ogni sua fase può essere diversificata, obbligando a prendere atto che la classe non è mai compatta ma ricca di differenze.
Quali sono le criticità dell’applicazione del metodo EAS?
Sicuramente sono nella diffusione delle novità: è necessario un impegno nella preparazione delle lezioni, cosa che però dovrebbe far parte dell’attività normale del docente. E poi il costo maggiore lo si paga sulla selezione dei contenuti: non si può pensare di far tutto, bisogna scegliere su quali argomenti focalizzarsi e su quali no. Però se si trasmette un metodo, poi lo studente dovrebbe essere in grado di riapplicarlo sempre, di orientarsi in un mondo sovraccarico di stimoli e informazioni.
Concentrandosi sul metodo non si rischia di perdere i contenuti?
Ben venga il sapere culturale. Ma non a discapito del sapere critico. Anche i ragazzi del liceo spesso escono dalla maturità con un enorme sapere nozionistico ma magari incapaci di analizzare in prima persona un testo o di leggere in maniera critica un fenomeno dell’attualità, rintracciandone le origini nel tempo. E poi ci sono tante scuole in cui, è inutile nasconderlo, non passano neanche più le nozioni, i concetti. Purtroppo nessuno ha la ricetta magica in mano e anche il metodo EAS non è che uno fra i tanti possibili. Però mi sembra un modo convincente che spinge tanto gli insegnanti quanto gli studenti a cercare nuovi spazi e mezzi di interazione e di costruzione del sapere.
miriam.begliuomini@unito.it
M Begliuomini è dottoranda in Letteratura Francese all’Università di Torino