Richard Matheson, l’arte della concisione
recensione di Valerio Evangelisti
dal numero di ottobre 2013
Richard Matheson
TUTTI I RACCONTI
Vol. 1. 1950-1953 Vol. 2. 1954-1959 Vol. 3. 1960-1993 Vol. 4. 1999-2010
trad. dall’inglese di Alda Carrer, Stefano A. Cresti, Maurizio Nati e Anna Ricci
pp. 565-499-451-474, cad. € 16,90
Fanucci, Roma 2013
Dopo la morte di Richard Matheson, una riflessione sulla pubblicazione integrale delle opere di uno scrittore difficilmente classificabile.
Richard Matheson (nato nel 1926, scomparso nel giugno scorso) esordisce nel 1950 sulla rivista “The Magazine of Fantasy and Science Fiction” con un racconto destinato a imprimersi per sempre nella mente di chi lo legge: Nato d’uomo e di donna. L’ispirazione è palese: si tratta in pratica del rifacimento di un racconto di Lovecraft del 1921, L’estraneo (Matheson opererà poi altre riscritture: il suo romanzo La casa d’inferno, 1971, richiama molto da vicino La casa degli invasati di Shirley Jackson).
Che cosa distingue Nato d’uomo e di donna da un modello tanto illustre? Non è difficile scoprirlo. La storia di un ragazzo portatore di una mostruosità (ignota al lettore) così spaventosa da terrorizzare i suoi stessi genitori, era inserita da Lovecraft in un contesto tipicamente gotico: un castello con torri, corridoi interminabili e ali disabitate. Riusciva in fondo abbastanza naturale, in simile ambiente, la presenza di un mostro. L’effetto “orrore” era affidato solo al fatto che della natura precisa di quella mostruosità non si sapesse nulla. In Matheson l’ambientazione gotica scompare. Salgono così in primo piano gli stati emotivi dei personaggi, non dispersi dalla cornice. La prima frase è di quelle che sconvolgono: “Oggi mia mamma mi ha chiamato mostro”. Il paragone suonerà irriguardoso all’accademia, ma viene da pensare a Kafka e al suo Gregor Samsa. Il resto del racconto (di sole quattro pagine) non è però kafkiano. Prende direttamente alla gola e trascina il lettore in un vortice di angoscia. Il fatto è che non è straniante. Tutt’altro: concerne emozioni reali, che è impossibile non condividere a fondo. E, più le si condivide, più si è trascinati in un pozzo di cui non si scorge la fine.
Con Nato d’uomo e di donna nasce un autore che si sottrae alle classificazioni. Per le sedi in cui è solito pubblicare, sarà spesso definito scrittore di fantascienza. Nulla di più inadeguato. In Matheson ci sono sì embrioni di spiegazioni scientifiche, ma servono a dare una parvenza di concretezza alle sue fantasie; non a rendere queste ultime razionali e rassicuranti. Quanto all’elemento horror, bisogna intendersi. Matheson, che pure gioca con gli stilemi del genere, è il primo a dirci che dell’orrore non condivide i fattori viscerali, istintivi. E difatti i suoi romanzi che sembrerebbero rientrare nella definizione (Io sono leggenda, il citato La casa d’inferno, Io sono Helen Driscoll) sono tutti tesi a cercare di dare regole allo spavento, a dominare l’ignoto e il terrificante (che poi sono la stessa cosa) tracciandone le mappe. È proprio questo tipo di ricerca che ha ingenerato l’equivoco di un Matheson “scrittore di fantascienza”. Tanto che in un saggio del 1967 (anzi, in una raccolta di saggi) meritatamente celebre, In Search of Wonder, Damon Knight si è divertito a “fare le pulci” a Io sono leggenda, sforzandosi di evidenziarne con il massimo puntiglio possibile le incongruenze scientifiche. Sottoposti allo stessi tipo di esame, decine di autori illustri classificabili “di fantascienza”, da Theodore Sturgeon a Philip K. Dick, perderebbero il titolo; e persino il romanzo migliore dello stesso Knight, Il lastrico dell’inferno, reggerebbe male alla prova.
Ma, nel caso di Matheson, la questione risulta particolarmente oziosa. Che sia autore di narrativa fantastica è certo; in quale delle sottospecie si collochi è quanto meno dubbio. La verità è che Matheson attinge alla letteratura di genere senza fare troppi distinguo. Da ogni filone prende ciò che gli serve: dalla fantascienza la parvenza di razionalità, dall’- horror l’incombenza di un’alienità totale e ostile, dal thriller inquietudini e sudori freddi di un protagonista alle prese con una realtà che non capisce e non può dominare. Il tutto messo al servizio di una crisi individuale che domina il proscenio per intero. A furia di mescolare ingredienti con la pazienza di un omeopata, Matheson arriva a iniettare nel genere, quale che esso sia, elementi che parevano non appartenergli: l’inquietante, l’angoscioso, l’incombente, l’elusivo, il fatale.
Non è un caso se, convocato da Alfred Hitchcock per scrivere la sceneggiatura di Gli uccelli, scandalizza il regista proponendogli una storia in cui gli uccelli non si vedano affatto. Matheson procede per elisioni, non per aggiunte; consapevole del fatto che sono le mancanze a procurare la paura vera. E che non esiste paura se non c’è protagonista autentico, non di cartapesta, che la scopra in se stesso attraverso progressive incongruenze del reale.
Con Matheson il genere si fa umanistico, rifugge dalle formule e da una meccanicità degli eventi che non coinvolga la sfera psichica. Vale anche per le sceneggiature di alcuni film di Roger Corman tratti da Poe (in particolare I vivi e i morti e Il pozzo e il pendolo, più altri minori). In seguito Matheson dichiarerà che, mentre li sceneggiava, Poe non l’aveva ancora letto. Non c’è da fidarsi: le sue interviste sono sempre riduttive, e spesso esasperano per l’eccesso di umiltà che vi figura. Dirà anche, con plateale contraddizione, che dei racconti di Poe si era limitato a mantenere l’inizio e la fine, mentre ne aveva imbottito il più possibile, creandola ex novo, la parte centrale. Ciò è molto più credibile; ma cos’è che Matheson aveva aggiunto? Nei due film citati, essenzialmente lo spessore dei personaggi interpretati da Vincent Price. Resi indimenticabili per le loro patologie assurde destinate a sfociare nella follia. Qualcosa che nei racconti di Poe era appena accennato. Ricordiamo ancora oggi i film di Corman non per la loro aderenza al modello letterario, bensì per gli innesti su di esso delle tematiche di Matheson.
Gli strumenti di cui Matheson si serve per perturbarci sono in apparenza tra i più semplici. Non si cerchi in lui lo stilista: ha un fraseggio secco e addirittura scarno, riduce tutto all’osso, non si perde mai in divagazioni. Suona paradossale chiamare ciò maestria, però è così. Nessun altro taglio stilistico avrebbe consentito un pari risultato; meno che mai la ridondanza di certi maestri dell’horror classico come Lovecraft e Poe, in cui la scrittura barocca diveniva parte di ciò che di malato e morboso esisteva nel tema. Matheson è, come detto, suscitatore di sudori freddi, non evocatore di terrori ancestrali. Li genera nell’unico modo possibile: prendendo alla gola. E ciò richiede lo scatto fu
lmineo, l’effetto sorpresa. Quanto più “normale” è il contesto, tanto più la morsa istantanea risulterà letale.
Si nota anche la dimestichezza con media differenti da quello letterario. Oltre a scrivere direttamente per il cinema sceneggiature di successo (Duel, Frantic, per non citare che i titoli più strettamente legati alle tematiche consuete dello scrittore), Matheson firma alcuni episodi indimenticabili della serie televisiva Ai confini della realtà di Rod Serling e, in seguito, di altri telefilm popolari (Alfred Hitchcock presenta, Star Trek, ecc.). Non vi è alcuna differenza rispetto alla narrativa, di cui mantengono la stringatezza e un’identica carica di angoscia.
Siamo dunque di fronte a un autentico virtuoso dell’arte del narrare, capace di incursioni multimediali come richiede l’immaginario moderno, ma per riportare tutto a letteratura, cioè alla forma di racconto più antica e consolidata; salvo poi arricchire quest’ultima della visualità e della tecnica che in altri media hanno il loro dominio privilegiato. Scrittore modernissimo, quindi, Matheson, ed è in fondo anche questo che lo ha sempre reso difficilmente classificabile; scrittore di genere senza che sia facile precisare di quale genere si tratti; e, in virtù di tutto ciò, scrittore longevo, che non viene nemmeno sfiorato dalla crisi della fantascienza, dal declino dell’- horror, dallo stereotiparsi del thriller. Già prima si poneva altrove, per non dire sopra. Ci mancherà.
nicolas@eymerich.com
V. Evangelisti è scrittore