Intervista a Sandrone Dazieri
di Costanza Carla Iannacone
A cosa si deve la sua predilezione per il genere noir/thriller? Le sue esperienze di vita possono aver influito in qualche modo in questa scelta o è qualcosa che ha a che fare con il lato più oscuro di ognuno di noi?
Diciamo che per me scrivere di giallo, di thriller è un modo per mettere su carta delle domande su me stesso, ovvero interrogarmi sui lati più oscuri dell’essere umano, cos’è che spinge le persone a provocare il male. È quindi un modo per indagare il rapporto con gli altri, con me e il mondo.
In un thriller è più difficile costruire la trama o la psicologia dei personaggi?
Credo dipenda dall’attitudine dello scrittore. Personalmente trovo più complesso costruire una trama che tenga tutti i pezzi insieme, i personaggi sono il primo passo per la scrittura, devo averli in testa molto bene per poter cominciare a scrivere. Mentre il processo di costruzione del personaggio, la sua psicologia mi viene quasi naturale man mano che li penso, la trama invece deve congiungere tutti i fili della storia, quindi richiede uno sforzo tecnico superiore.
Uccidi il Padre e L’Angelo sono i primi due libri di una trilogia. Aveva già in mente di scriverla o il progetto si è concretizzato in corso d’opera visto il successo del primo e, attualmente, anche del secondo?
Avevo già in mente di scrivere una trilogia che sviluppasse i personaggi, come avrei voluto svilupparli l’ho capito all’incirca a metà della scrittura del primo romanzo, questo perché avevo capito che tipo di finale avrei voluto fare e che quel finale rimandava ad un secondo romanzo con un calcio molto forte sull’identità del protagonista. Volevo un percorso di due personaggi che mutavano, non una coppia che si incontra nel primo libro e diventa una coppia efficiente, ma volevo che avessero un percorso comune che li allontanasse e che li avvicinasse e li mettesse nei guai a seconda dei momenti. Questo per evitare il segnale classico dei protagonisti che non mutano più, nel terzo romanzo infatti troveremo la loro fisionomia definitiva.
Recentemente ha dichiarato di essere uno scrittore che va all’essenziale. Cos’è l’essenziale nella vita e nella scrittura?
Dipende da quello che si sta scrivendo, nel mio caso l’essenziale è trovare tutto quello che è necessario per definire la psicologia dei personaggi e lo svolgimento degli avvenimenti nel modo più efficace possibile togliendo il superfluo. Non c’è una regola generale se non quella dell’artigiano che toglie pezzi di legno dalla statua finché non rimane pulita. L’approccio, così come lo stile, più efficace e asciutto è quello che va sempre ricercato per andare all’essenziale, al cuore di ciò che si vuol dire. È una ricerca finalizzata prima di tutto a sapere cosa si vuole raccontare, che è più difficile di quello che si pensa: cercare sempre di raccontare quello che è necessario per la storia. Nella vita è quasi la stessa cosa, cercare davvero quello che ti interessa fare, spesso quello che facciamo è dovuto dalle necessità, dalle pressioni sociali, dall’immagine che abbiamo di noi. Spesso le cose che facciamo le facciamo perché riteniamo che dobbiamo farle, non perché le vogliamo davvero fare, invece uno scrittore che ritiene la sua vita costruita intorno alla scrittura è libero di cercare questo. Cos’è la cosa davvero importante? Scrivere, prima di tutto, avere in testa quello da fare, documentarsi, tutto questo è necessario. Già presentare un libro non è necessario oppure andare in giro; è necessario se serve per documentarsi o rilassarsi, ma non per mostrarsi. Io per esempio inviterei i miei colleghi a stare più a casa a scrivere invece che andare in giro, ma questa è un’altra questione.
È possibile scoprire la vita anche nella narrativa noir?
Non lo so, è una bella domanda, bisogna capire cosa si intende per vita anche qua. Per me scrivere di giallo, di noir, di thriller, è un modo per raccontare quello che per me è importante nella mia vita, di quello che incontro nelle mie giornate, le mie paure, i miei desideri, le mie speranze, le mie aspirazioni, il mio rimorso, il mio lato oscuro. Sono cose molto complesse nel mondo e difficili da spiegare… cosa che nei miei romanzi diventano una metafora, che si rapporta al nostro mondo scritto da giornalista. Certo che c’è il mondo e c’è la vita, però bisogna saperla leggere. Il compito dello scrittore è quello di raccontare una storia (che non necessariamente deve corrispondere alla cronaca perché la verità passa lo stesso) attraverso il suo punto di vista e la sua voce. Deve avere un valore e una riconoscibilità universale quello che scrivi, se parli di paura o smarrimento o dubbio, come nel caso dei miei romanzi, devi essere comprensibile per chiunque, anche oltreoceano o fra cinquant’anni, perché riesci a cogliere l’essenza che non muta perché è connessa all’essere umano.
Prima di diventare un noto e apprezzato scrittore e sceneggiatore di serie TV e fumetti ha svolto diversi mestieri poco retribuiti, vivendo per diversi anni senza tetto o in case occupate senza riscaldamento. Ricorda un po’ il personaggio di Mario Castelli, il protagonista del romanzo La vita in generale del suo collega Tito Faraci. Lei che ha vissuto anche questo spaccato di vita, com’è vivere ai margini della società?
Bisogna vedere quali sono i margini, nel mio caso è stata una necessità e, ad un certo punto, anche una scelta. Per me vivere nelle case occupate o nei centri sociali aveva un significato politico e culturale. È stata una scelta fortemente voluta quindi non l’ho sentita come marginalità, avevo tentato di trasformare quello che facevo in qualcosa di più importante, mi ha dato una visione del mondo più aperta e quindi per me è stata una scuola di vita.
Con il saggio Apocalittici e integrati Umberto Eco ha dimostrato come il mondo dei fumetti appartenesse di diritto alla cultura. Eppure il fumetto, ancora oggi in Italia, conserva un’accezione negativa. Qual è la sua scuola di pensiero in proposito?
Il fumetto come il cinema, la televisione e qualsiasi forma di arte espressiva ovviamente fa parte della cultura. Dove si collochi, quale sia il grado di raffinatezza, di approfondimento dipende dall’opera. Ci sono gialli che sono pezzi della cultura, altri un po’ così, e questo vale anche per i fumetti. In Italia si è sviluppato perlopiù il fumetto popolare come imitativo dell’Oltreoceano, che è stato quello che è accaduto nella fase infantile del giallo italiano che fino agli anni Novanta tendeva ad imitare i modelli anglosassoni, e spesso scrittori che non avevano alcuna fortuna usavano pseudonimi inglesi, personaggi inglesi… questo è accaduto anche con il fumetto italiano. Ci sono case editrici che fanno un lavoro di ricerca, di traduzione, vanno a scovare nuovi autori. Da noi è il fumetto da edicola da basso prezzo che ha poco da dire, in Italia è stato molto bello che so… penso a Dylan Dog che è riuscito a rompere tantissimi schemi narrativi ed è un pezzo della nostra cultura, altri meno. Altri non sono d’autore, non fanno ricerca, fanno parte di una cultura popolare ma meno interessante, hanno sposato il modello super seriale. Nonostante questo c’è una nostra scuola di autori italiani molto notevoli che hanno molto da dire. Per esempio, Tito Faraci che ha citato prima è riuscito a dare al fumetto di Topolino un’impronta culturale personalissima, è un esempio di virtuoso.
Un personaggio dei fumetti che vorrebbe esistesse realmente. E perché.
Wolverine. È simpatico da frequentare, al di là del suo lavoro.