Cupa fantascienza oltre una porta segreta
recensione di Grazia Paganelli
dal numero di luglio/agosto 2013
Leos Carax
HOLY MOTORS
con Denis Lavant, Kylie Minogue, Michel Piccoli, Eva Mendes
Francia-Germania 2012
Sono passati ben tredici anni dall’ultimo lungometraggio di Leos Carax (nel 2008, però, aveva diretto il bell’episodio Merde per il film collettivo Tokyo!), eppure la sua visionaria genialità sembra non essere cambiata. Anzi, si può dire che il regista di Boy Meets Girl (1984), Rosso sangue (1986), Gli amanti del Pont-Neuf (1991) e Pola X (1999) abbia concentrato in Holy Motors tutta l’energia di un cinema che è ancora una volta sfida e sperimentazione, omaggio al cinema stesso e all’idea antica e moderna di visione. Riflessione lucida ma poetica dello stato delle immagini nell’epoca digitale, ovvero l’immaterialità che si impone.
Un uomo si sveglia in una camera d’albergo e scopre una chiave e una porta nascosta nella parete che lo conduce in una sala cinematografica. Di quell’uomo non si saprà più nulla, sostituito, fin dalla scena seguente, dal vero protagonista, Monsieur Oscar (Denis Lavant, attore feticcio di Carax) che, accompagnato dall’autista Céline, attraversa Parigi a bordo di una limousine bianca.
La sua giornata si preannuncia intensa: ha nove appuntamenti da rispettare che, si vedrà via via, corrispondono ad altrettanti personaggi da interpretare. Banchiere impegnato a risolvere al telefono questioni di finanza, mendicante, attore specializzato in motion capture, Monsieur Merde, che dalle fogne sbuca in un cimitero seminando il panico, un padre che aspetta in auto la figlia adolescente, ma anche un killer incaricato di uccidere un uomo e prenderne le sembianze. Infine, un vecchio morente in una lussuosa stanza d’hotel e marito e padre di famiglia, che la sera rientra a casa stanco dopo il lavoro e ritrova la famiglia composta da scimmie. Un cerchio imperfetto che si chiude lasciando disseminati enigmi e infinite domande su questo mondo dove l’individuo non ha più identità, o ne ha molteplici, e la vita è infinita rappresentazione. Prima dell’ultimo appuntamento, però, Oscar incontra in un centro commerciale abbandonato Jean (Kylie Minogue), la donna amata, anche lei impegnata nei suoi innumerevoli ruoli. Parlano, si inseguono, sembrano danzare liberi dai loro travestimenti in una scena di musical inattesa, dolce ma crudele al tempo stesso, perché destinata a esaurirsi, facendo precipitare i protagonisti nella loro quotidiana prigionia.
Holy Motors, in tutta la sua originalità, dovrebbe essere visto insieme a Cosmopolis di David Cronenberg. Film simili nella prospettiva di un mondo alla deriva, fuori e dentro il sogno, che sfugge agli occhi desiderosi o chiusi degli abitanti/ spettatori. Ma se Cronenberg organizza il suo discorso (e le sue limousine bianche dentro New York) nella concretezza aggressiva dell’oggi, Carax spinge i suoi personaggi attraverso un percorso molto oltre il conflitto tra passato, presente e futuro. In Holy Motors la transizione si è già compiuta e non si può più parlare di realtà o di verità se non nell’attimo in cui le cose accadono/sono fatte accadere da copioni prestabiliti. Come se dopo il crollo delle economie virtuali, il mondo si fosse ripiegato su se stesso vivendo nel respiro della finzione. Attraverso i vetri della limousine bianca non c’è nulla da vedere perché tutta la flagranza si consuma al suo interno, nel lavoro di montaggio e smontaggio dei personaggi che Monsieur Oscar andrà a interpretare, e nel continuo teatro del reale.
“Il film sarebbe una sorta di fantascienza, dove umani, bestie e macchine si troverebbero in via d’estinzione – ‘motori sacri’, legati da un destino comune, schiavi di un mondo sempre più virtuale. Un mondo dal quale a poco a poco scompariranno le macchine visibili, le esperienze vissute, le azioni”, spiega Carax.
Fantascienza, dunque, ma cupa, ironica, venata da toni di commedia, tragedia, favola, musical, appunto, alla quale ci si è affacciati all’inizio attraverso la porta nascosta della camera d’albergo. Era lo stesso Carax il Dormiente che si fa pedinare dalla macchina da presa, attraverso un corridoio scuro che porta con sorpresa in una sala cinematografica. In platea, però, la gente dorme, o è morta fissando lo schermo. Non c’è controcampo, né spiegazione possibile. Si entra direttamente nel sogno/ incubo di Oscar e nelle rappresentazioni da mettere in scena. Immagini forti che rappresentano l’idea d’origine di questo film. Carax cita un racconto di Hoffman in cui il protagonista scopre nella sua camera d’hotel una porta segreta che dà su una sala d’opera. Come nella frase di Kafka che potrebbe servire da preambolo a ogni creazione: “C’è nel mio appartamento una porta che fino ad ora non avevo notato”.
Dentro l’auto, che svela spazi ogni volta imprevedibili, Oscar muterà la sua pelle innumerevoli volte, trasformandosi, cambiando occhi, sguardo, tempo, carne. Come un killer scrupoloso che passa da una missione all’altra. Come un artista alla ricerca della bellezza del gesto. È un cinema vampiro perché ricrea la vita nell’illusione della vita. Si prende in prestito l’idea e si procede come in successivi happening situazionisti. “Tutto può accadere fuori da una sala cinematografica” si diceva in Les erbes folles di Alain Resnais. E tutto deve succedere, dice Carax, perché non si interrompa la continuità tra il presente e il passato, perché tutto scorra e si possa scongiurare lo scontro dei tempi che, invece, ritrae Cronenberg. La storia, anzi, deve ripetersi in un canovaccio di storie letterarie e filmiche, in continua sovrimpressione tra Henry James, Stroheim, Monteiro, perché poi, alla fine, le auto possano tornare a casa senza graffi, e chiacchierare tra loro al buio.
Neppure la morte è definitiva
Nella sua auto/camerino, Oscar si trova a parlare con un uomo misterioso, l’uomo dalla macchia di vino (un intensissimo Michel Piccoli), presenza oscura che il regista definisce “il padrone di macchine da presa invisibili”. Una specie di grande burattinaio di questa fiera delle illusioni dove il corpo è uno strumento quasi privo di sensazioni, uno specchio per sguardi febbricitanti o inermi, attori imprigionati nel trucco o nei marcatori del movimento che sembrano catturare il respiro stesso di Oscar, la vita che deve essere replicata all’infinito, e manipolata e ancora riprodotta per spettatori addormentati (o forse sono morti), ai quali, però, si deve pur offrire uno spettacolo.
In questa realtà sperduta, neppure la morte è definitiva. Oscar muore nei suoi travestimenti, ma si rialza subito per proseguire la sua giornata. Poco prima, nel cimitero, che è anche teatro di uno stravagante servizio di moda (dove ricompare il personaggio di Merde preso a prestito dall’episodio di Tokyo!) le tombe non riportano più alcuna iscrizione, ma per tutte l’identica scritta: “Visitez mon site”, seguita da un indirizzo web. Non è un caso che proprio qui, o meglio, nei sotterranei fangosi di questo cimitero, si consumi la storia più imprevedibile, la favola tra l’orrendo Merde e la bella modella (Eva Mendes), fiaba senza parole ma fatta di gesti esasperati, irriverenti e a loro modo poetici nell’insensatezza della situazione.
Molti gli omaggi disseminati in questo film, da Jules Marey con i suoi esperimenti di cronofotografia (l’uomo nudo che salta), a George Franju, che compare tra i ringraziamenti nei titoli di coda, e molte anche le lingue (oltre al francese), talvolta parole o segni incomprensibili, talvolta cenni di inglese o di russo, fino al dialogo finale tra le automobili parcheggiate. Poco prima, alla fine di questa lunga giornata iniziata all’alba, Céline riporta la limousine nel garage. Per poche ore potrà sottrarsi al gioco delle parti di cui è empatica complice. Ma prima di uscire dall’auto indossa una maschera bianca che le copre tutto il viso. Occhi senza volto, appunto, a proposito di Franju.
paganelli@museocinema.it
G Paganelli è programmatore del museo Nazionale del Cinema di Torino