Virginia Woolf: lo sguardo obliquo della scrittrice di Bloomsbury

Granite and rainbow

di Teresa Prudente

Virginia Woolf: lo sguardo obliquo della scrittrice di Bloomsbury

Il felice impulso fornito alla pubblicazione e ripubblicazione dei testi di Woolf dallo scadere dei diritti d’autore delle opere della scrittrice è proseguito senza soste negli ultimi mesi, e le nuove uscite, di cui forniremo qui solo alcuni esempi, hanno il pregio, già sottolineato per le opere pubblicate nel 2011 (cfr. “l’Indice”, 2012, n. 4), di far emergere la varietà dei generi e delle forme con cui Woolf si è confrontata, fornendo una vera e propria rete interpretativa, costituita da infiniti rimandi e connessioni che travalicano la distanza temporale fra i testi, così come le differenze fra generi letterari. Uno dei tratti comuni che è possibile ravvisare fra queste opere “diverse” di Woolf è infatti proprio il tentativo dell’autrice di “tendere” il limite stesso del genere (romanzo, diario, biografia) da lei affrontato, tentativo possibile solo a partire dalla profonda conoscenza e comprensione dei meccanismi delle diverse forme.

Emblematica, da questo punto di vista, è la premessa alla selezione degli estratti dei diari giovanili di Woolf dedicati ai viaggi compiuti in Gran Bretagna (Qui è rimasto qualcosa di noi, Diari di viaggio in Gran Bretagna, Mattioli 1881, 2012). In essa la scrittrice sottolinea la propria insoddisfazione nei confronti dei suoi appunti di viaggio per la “sommarietà delle affermazioni – la trascuratezza delle descrizioni – la ripetizione degli aggettivi”, dando così prova non solo del forte spirito autocritico che avrebbe poi continuato a caratterizzarla, ma anche dell’“apprendistato” creativo che, come sottolinea Francesca Frigerio nella postfazione, la scrittrice stava in quegli anni compiendo per giungere a trovare la propria voce e cifra espressiva. Proprio le modalità di redazione determinano tuttavia il carattere estremamente interessante di questi appunti, stilati, continua l’autrice nella nota, “in momenti diversi, e in stati d’animo differenti”, e dunque vibranti dell’intensità di una scrittura frammentaria che va a intercalare momenti di vita sottratti all’ordinaria routine.

La felice scelta dell’editore italiano di isolare, per la prima pubblicazione italiana di questi diari, gli estratti dedicati ai viaggi (la prima uscita, del 2011, era stata quella dei Diari di viaggio in Italia, Grecia e Turchia) va a cogliere proprio l’importanza di un’esperienza di dislocazione che attiva in Woolf illuminazioni, riflessioni proprie di quell’uscita dallo scorrere “ordinario” del tempo lineare su cui tanta della sperimentazione dell’autrice si sarebbe poi concentrata. E se molti di questi estratti danno la possibilità di sperimentare “in nuce” quelli che sarebbero diventati tratti dominanti della scrittura di Woolf, la sezione iniziale, relativa al ritorno della scrittrice in Cornovaglia, luogo abituale delle vacanze estive della sua famiglia, si rivela particolarmente emozionante. È infatti, come noto, proprio a partire da tali ricordi che Woolf concepirà To the Lighthouse, trasformando gli stessi elementi che compaiono in questi appunti, la distanza temporale fra il passato e il presente, l’esperienza della memoria sensoriale, la sensazione di un mondo ormai distante, perso, eppure ancora presente (“l’incantesimo”, in queste pagine) non solo in temi, ma in veri e propri elementi strutturali del romanzo del 1927. Esempi, come questi, di corrispondenze fra i testi e di sviluppo dei nuclei della scrittura nel corso del tempo ci indicano come la complessità delle opere di Woolf stimoli e richieda non solo un attento ascolto, ma anche una visione più ampia del testo, che sembra irradiarsi in infinite direzioni al di là della pagina stessa.

cover-1Tale lavoro di esegesi intra ed extra-testuale sembra avere guidato la traduzione di Mrs Dalloway proposta da Anna Nadotti (Einaudi, 2012), laddove le scelte attente, al tempo stesso fedeli e creative, della traduttrice paiono fondarsi sulla ricerca della resa degli innumerevoli livelli, espliciti o meno, di un testo che non cessa di stupirci per la complessità nascosta al di sotto della perfetta superficie. Il lavoro di Nadotti dimostra di essersi appuntato proprio sugli elementi, spesso non immediatamente percettibili, che rappresentano gli invisibili pilastri in grado di reggere le complesse, ma al tempo stesso leggere, architetture sintattiche di Woolf, così come la struttura stessa, circolare e musicale, del testo, ovvero quegli elementi che, come sappiamo soprattutto dai diari, erano oggetto, da parte della scrittrice, di infinite limature, di scelte mirate e di un inesausto lavoro di riscrittura. La nuova traduzione si dimostra dunque consapevole delle sottili tecniche utilizzate da Woolf per la sua esplorazione della coscienza (il “tunnelling process” che aveva coniato proprio in fase di stesura di Mrs Dalloway) che, elemento di ulteriore complessità, prende la forma, in quest’opera, di un dare voce non solo alla coscienza individuale, ma anche alle corrispondenze, al dialogo silenzioso, fra diverse coscienze. In questo senso, le scelte di Nadotti sono appuntate a una fedeltà rispetto al testo che, significativamente, si rifiuta di “normalizzare”, come spesso accaduto nelle traduzioni passate, lo sperimentalismo di Woolf (si vedano ad esempio i “for” mantenuti nella traduzione a inizio frase in quanto essenziali per rendere la concatenazione e il passaggio da un pensiero all’altro) e, al tempo stesso, opera piccole e meditate trasformazioni, ricercando un’equivalenza di effetto nella resa italiana degli elementi (vocabolario, sintassi, punteggiatura) che vanno a determinare il ritmo della singola frase, della pagina e infine del romanzo stesso. La nuova traduzione stimola dunque nel lettore ulteriori livelli di “immersione” in un testo che appare perennemente malleabile, nel senso, sottolineato da Nadotti, di un suo infinito trasformarsi e schiudersi a ogni nuova lettura e dell’infinito riverberare concettuale e sonoro del suo linguaggio, nonché della rete, illustrata nella prefazione di Antonella Anedda, che lo connette alle altre opere di Woolf.

woolfLa consapevolezza dell’importanza dei rimandi fra i diversi testi è alla base anche della scelta della ripubblicazione dell’unica commedia scritta da Woolf, Freshwater (Nottetempo, 2013), accompagnata da due ritratti e da un racconto (Julia Margaret Cameron, Ellen Terry, Una scena del passato) che hanno come protagonisti i personaggi e i luoghi del testo teatrale. Se la combinazione dei testi favorisce un’interessante esperienza di lettura, in cui ogni singolo testo vive e si completa attraverso gli altri, la postfazione della curatrice e traduttrice Chiara Valerio corre il rischio di risultare piuttosto fuorviante rispetto agli intenti e, soprattutto, al più genuino livello di godibilità della commedia. Freshwater rappresenta infatti la quintessenza non solo dello spirito, ma anche dei rapporti umani e artistici e, soprattutto, della libertà, del gioco e dell’ironia (mai sufficientemente sottolineata in Woolf) che hanno animato la rivoluzione culturale impressa dal Bloomsbury Group. La commedia, redatta da Woolf in due stesure e infine messa in scena nel 1935 dai membri del gruppo, si inserisce nella consolidata serie di forme di intrattenimento e auto-intrattenimento creativo, ironico e dissacrante (si veda ad esempio il gustosissimo Dreadnought hoax del 1910) che scandiva la vita del gruppo. Non esistono dubbi sulla destinazione “privata” della commedia, sul suo essere stata scritta in un codice, fatto di allusioni, caricature, ammiccamenti, che incorpora i destinatari stessi all’interno dell’opera, fornendo a noi lettori la possibilità senza pari di sentirci, seppure furtivamente, all’interno stesso del gruppo, e sperimentare l’atmosfera intima e divertita da cui l’opera era nata. Il carattere furtivo della nostra presenza è del resto confermato dalla manifesta insoddisfazione di Woolf rispetto alla commedia, da lei considerata “troppo sottile e piatta” (Lettere), “una sciocchezza” (Diario) didascalicamente burlesca e satirica, e non adatta, se non dopo molto altro lavoro, che Woolf tuttavia dichiarava di non voler compiere, né alla messa in scena al di fuori dell’ambiente del gruppo, né alla pubblicazione (avvenuta infatti postuma). Freshwater rappresenta tuttavia uno straordinario documento non solo dell’atmosfera di Bloomsbury, ma anche di quei capisaldi del ribaltamento che il gruppo aveva operato rispetto alle convenzioni sociali e, soprattutto, artistiche, precedenti. Per il lettore consapevole della sperimentazione letteraria di Woolf, proceduta di pari passo con quella pittorica di Vanessa Bell e Duncan Grant, e del postimpressionismo “importato” da Roger Fry, le battute della commedia sullo sfrenato simbolismo del pittore Watts, sulle acrobazie di Tennyson alla spasmodica ricerca di rime, e, non ultimo, sulla sovraeccitata eccentricità della fotografa Cameron, irreale fino a sconfinare nel manierismo (come emerge anche, sottilmente, nel ritratto omonimo), rappresentano gustosissime dichiarazioni di poetica da leggersi, tuttavia, non, come ci propone la postfazione, vedendo in questi personaggi “un pre-circolo di Bloomsbury più intatto, incantato”, quanto, esattamente all’opposto, come indicava Woolf stessa definendo il testo una “satira”, attraverso il costante ribaltamento offerto dalla sanissima e tagliente ironia verso gli eccessi di un’arte che si rifiuta di ascoltare “il canto del mondo reale” (Diario).

download-4La dettagliata ricostruzione del fermento artistico, nutrito da solidissimi rapporti umani, che ha animato il Bloomsbury Group, e dato vita a quel “codice” di cui si è parlato, ci viene invece offerta da Barbara Lanati nella sua introduzione alla nuova edizione di Roger Fry (Elliot, 2012), che dà conto sia del processo di stesura e delle scelte operate da Woolf per la biografia, sia del percorso di vita e artistico di Fry. Emerge così il carattere straordinario e centrale di un personaggio che è stato in grado di imprimere una svolta fondamentale all’arte del XX secolo, coniugando nella sua opera critica e artistica proprio quella coesistenza di “granite and rainbow”, solidità concettuale e capacità visionaria, che Woolf stessa avrebbe importato nella propria scrittura. Il ritratto che ci viene fornito dalla biografia, come avverte Lanati, rimane tuttavia, come del resto in molte delle opere dei pittori del Bloomsbury Group, “accennato”, mobile, dettagliato, eppure in grado di alludere alla sostanziale imprendibilità del soggetto, a ciò che, pur nel resoconto fedele di una vita, sfugge alla precisa definizione. Troppo consapevole era Woolf, che a quest’opera si era dedicata negli ultimi anni della sua vita, non solo dei confini labili e indefiniti dell’individualità (nelle parole di Clarissa Dalloway: “E non avrebbe detto di Peter, né di se stessa, Io sono questo, io sono quello”), ma anche delle infinite implicazioni della biografia, a cui già si era applicata, non casualmente, attraverso ironiche distorsioni del genere, con Orlando (1928) e Flush (1933), e a cui avrebbe dedicato, poco prima dell’uscita di Roger Fry, il saggio The Art of Biography (1939). Woolf lavorò con grande fatica all’opera, messa alla prova non solo dalla portata emozionale della materia, ma anche dai dettami imprescindibili del genere, da quella linearità, coerenza e fattualità che risulteranno infine in quest’opera trasfigurati attraverso l’incorporamento dell’autore nella biografia (si veda Federico Sabatini, http://www.- letteratura.rai.it/articoli/virginia-woolf-granito-earcobaleno/ 19320/default.aspx), con l’emergere, soprattutto nelle descrizioni di luoghi e persone, di spiragli dell’inconfondibile cifra stilistica di Woolf, ovvero di uno sguardo obliquo che non si limita a registrare ma va piuttosto a ricreare la realtà stessa, in quella perenne combinazione di “fatti” e “visione” che appare, in trasparenza, al di sotto di ogni opera della scrittrice.

teresa.prudente@unito.it
T. Prudente è assegnista di ricerca in letteratura inglese all’Università di Torino