Le conseguenze di un’aggressione
recensione di Francesco Pettinari
Asghar Farhadi
IL CLIENTE
con Shahab Hosseini, Taraneh Alidoosti, Babak Karimi, Farid Sajadi Hosseini, Mina Sadati
Iran / Francia 2016
Come un’aggressione può cambiare da un momento all’altro la vita felice di una giovane coppia; come possono determinarsi reazioni opposte nei confronti del responsabile da parte di lui e di lei; quanto pesa il retaggio della rigidità della tradizione – specie di matrice religiosa – nella definizione dei ruoli di genere a partire dal microcosmo della minima unità di famiglia – la coppia, giustappunto, e in particolare rappresentativa del ceto medio – in un paese come l’Iran che pure sta facendo la sua corsa per adeguarsi al processo di modernizzazione globale. Questo il nucleo tematico del nuovo film di Asghar Farhadi, Il cliente (titolo originale: Forushande): presentato in concorso all’ultima edizione del Festival di Cannes, accolto trionfalmente dalla critica, premiato con ben due riconoscimenti – per la migliore sceneggiatura, e per il miglior interprete maschile -, grande successo di pubblico in patria, è il candidato all’Oscar per il miglior film straniero dell’Iran ed è già nella short list del nove film da cui uscirà la cinquina finale, è stato candidato altresì al Golden Globe come miglior film in lingua straniera. Non è solo questione di premi e di riconoscimenti, ai quali peraltro Farhadi è avvezzo, si pensi al successo planetario di un film come Una separazione che lo ha consacrato a livello internazionale in un percorso che è partito dalla Berlinale 2011, dove ha vinto l’Orso d’oro, ed è arrivato fino all’Oscar nel 2012, passando per una serie di numerosi importanti riconoscimenti. Il fatto è che Il cliente conferma il talento del regista iraniano, classe 1972, come raffinato narratore di storie per il cinema che hanno un sapore romanzesco, che rivelano una complessità di fili tematici che vengono tessuti con grande abilità in vista dell’esito finale – e infatti, risulta giustissimo il premio alla sceneggiatura, scritta da Farhadi medesimo, a dimostrazione di quanto il film sia valido a partire dalla forma prefilmica che è scrittura, prima ancora di diventare un racconto per immagini.
Il gusto e la padronanza per la bellezza e la sontuosità dell’architettura narrativa si era confermato anche con Il passato nel 2013 – dove il presente di una nuova coppia doveva fare i conti con il peso del passato delle coppie di provenienza sia di lui che di lei -. anche quello premiato a Cannes per la miglior interprete femminile; e lo trovava nel film che ha rivelato Farhadi nel 2009, About Elly, premiato a Berlino per la miglior regia, un film superbo per come ricrea L’Avventura di Antonioni in Iran senza per questo somigliare minimamente a quello che oggi viene chiamato remake.
Oltre le etichette di genere
Come vale per tutto il suo cinema, vedere Il cliente solo in relazione alla trama, solo per impadronirsi di quello che racconta, è estremamente limitante; l’autorialità, come nei casi migliori, prevede il rapporto tra fabula e intreccio, la trama vale per come si dipana in base alla qualità della messa in scena. Il cliente presta particolarmente il fianco a una visione limitativa, perché chiama in causa addirittura uno dei generi che più fa presa sul pubblico: infatti, sulla carta si presenta come un thriller psicologico, a essere precisi come un revenge thriller, ma, a film visionato, questo è solo un aspetto, c’è una ricchezza che eccede di gran lunga i limiti dell’etichetta di un genere.
All’inizio siamo in un teatro, si rivelano pezzi di scenografia, spicchi di ambienti domestici che andranno a ospitare la messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Siamo a Teheran. Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti) sono una coppia di giovani, lui è insegnate lei casalinga, entrambi sono attori semiprofessionisti di teatro impegnati nella messa in scena del testo di Miller nei ruoli dei protagonisti, Willy e Linda Loman. Dal teatro alla realtà, o al teatro naturale: la coppia è costretta a dover cambiare casa perché dove abitavano una scavatrice, scambiata per un terremoto, ha minato la sicurezza delle fondamenta dello stabile – bellissima la concitata scena iniziale dell’evacuazione e di come la macchina da presa arriva a mostrare la scavatrice. Il capocomico aiuta la coppia a trovare un nuovo alloggio, anche se una camera è ancora occupata dalle cose dell’inquilina precedente. Una sera, mentre Rana è sola in casa e va in bagno per fare una doccia, suona il citofono, lei apre senza chiedere chi è, crede che sia Emad che ha sentito poco prima al telefono, apre anche la porta, poi torna in bagno. Emad arriva a casa, trova tracce di sangue e Rana non c’è, saranno i vicini a informarlo dell’accaduto e a portarlo all’ospedale: Rana è stata aggredita, ha una ferita alla testa, ma da chi, e perché? Questo è l’innesco di quello che sarebbe potuto essere un thriller circoscritto all’aggressione, alla ricerca del colpevole e alla eventuale resa dei conti. Ma a Farhadi, più che i fatti in sé, interessano le conseguenze dei fatti, le ripercussioni dei fatti sui protagonisti, l’analisi del dopo, per mostrare le reazioni della natura umana agli eventi, come entrano in gioco l’istinto e anche i condizionamenti della cultura di appartenenza. A tal punto che non esiste una testimonianza diretta, nemmeno quella del regista, dell’aggressione a Rana, c’è solo il crescendo di dicerie, di sospetti, di illazioni da parte dei vicini – c’è stata anche violenza sessuale? –, un crescendo che diventa la causa della trasformazione inattesa e insospettata di Emad, che è poi il motivo centrale dell’ultima parte del film. La coppia fatica a tornare alla normalità: Emad vorrebbe andare alla polizia a fare denuncia, Rana non vuole, lei che è già stata violata nella sua intimità di donna e che si colpevolizza per non aver parlato al citofono per chiedere chi era, lei che non riesce nemmeno più a stare da sola in casa, a andare in bagno, e specie nella doccia. E ci sono gli indizi: l’aggressore ha lasciato il cellulare, dei soldi, e le chiavi del furgoncino. Insieme al montare dei sospetti che non riescono a coprire la volontà di considerare l’accaduto un incidente superabile, si risveglia in Emad un istinto arcaico, vuole rintracciare l’aggressore, vuole umiliarlo, vuole vendicarsi.
E sarà proprio il furgoncino a portare Emad alla resa dei conti con l’aggressore, in maniera sorprendente: prima sembra che sia un ragazzo che usa il mezzo per fare consegne, ma in realtà il cliente del titolo è l’uomo che sta per diventare il suocero di quel ragazzo, un uomo che rivela una vicenda umana triste quanto ordinaria, un padre di famiglia e marito adorato dalla moglie, il quale però per oltre trent’anni ha avuto bisogno, per mantenere il proprio equilibrio, di avere una relazione con una prostituta. Emad si confronta con il cliente: è indicativo del controllo di tutti gli elementi della trama, da parte di Fahradi, vedere come arriva a identificarlo: un vicino aveva detto che l’uomo era scappato via zoppicando a causa della ferita a un piede, e sarà proprio quel piede ancora fasciato che lo inchioderà; messo di fronte alla domanda del perché ha aggredito una donna diversa da quella che si aspettava di trovare, lui risponde: la tentazione. La volontà di vendetta di Emad diventa un furore atavico: prima lascia l’uomo, che peraltro soffre di cuore, chiuso nel vecchio alloggio, poi lo raggiunge insieme a Rana; l’uomo sta male, teme la vendetta più grande, quella di essere umiliato davanti a tutta la famiglia, la moglie, la figlia e il futuro genero, i quali pensano che Emad abbia soccorso l’uomo. Di fronte all’istinto di vendetta e all’orgoglio di maschio ferito di Emad, Rana oppone la sua inclinazione al perdono e al silenzio, il perdono che Emad non riesce a concedere; l’anziano finirà per subire un attacco di cuore e per essere portato via in ambulanza.
Il ruolo del teatro
Resta da dire qualcosa sul ruolo del teatro in questo film, sul rapporto che i numerosi frammenti della messa in scena di Morte di un commesso viaggiatore instaurano con la messa in scena della vita quotidiana di Rana e Emad. È ovvio che non arriva tutta la portata di denuncia del testo di Miller, il quale nel 1949 già faceva deflagrare il sogno indotto dalla società americana per la ricerca senza scrupoli della felicità materiale, dove chi non ce la fa – come Willy Loman – a adeguarsi al processo di modernizzazione non può che rimanere schiacciato e vinto e umiliato, persino dai membri della propria famiglia. Nella visione de Il cliente, più che il parallelo tra la New York di Miller e la Teheran di oggi, gli inserti teatrali sono indicativi della volontà di tracciare una crescente specularità significante tra Emad e Rana nella vita reale e come interpreti della pièce – rivelativa la goccia di sudore che scorre sulla fronte di Emad/Willy mentre è disteso nella bara e Rana/Linda lo interroga del perché del suo gesto. E poi c’è la meraviglia di tanti momenti dove Fahradi mostra con sublime efficacia il sottile confine arte-vita: Emad e Rana che si parlano in un a parte a scena aperta; Rana che contratta con la sorella – anche lei attrice – per chiederle di tenere il nipotino mentre lei è in piena recita, seppure fuori scena; Emad che altera il testo per insultare duramente il capocomico durante la recita; e poi tutti i frammenti nei camerini dove il diaframma tra attore e personaggio è sottile fino a essere quasi osmotico – e, in questa prospettiva, non si può non pensare a Vanya sulla 42esima strada di Louis Malle, ma anche, al più recente Birdman di Alejandro González Iñárritu.
Come un cerchio, il film si chiude infatti con il teatro. Farhadi, come sua abitudine, costruisce il film per approdare a un finale sospeso, che lascia intenzionalmente parecchi interrogativi aperti allo spettatore. Che ne sarà di Emad e Rana nella vita reale? Dopo averli inquadrati nelle ultime scene – come i protagonisti di Una separazione – già divisi, a livello icasticamente simbolico, da elementi architettonici, vetri, porte, pareti, alla fine ce li mostra in teatro, al trucco, ciascuno isolato in un’inquadratura diversa. Forse l’arte offrirà loro la possibilità di un riavvicinamento. Forse parlandosi nei panni di Willy e Linda Loman potranno tornare a essere Emad e Rana. Forse: in questa incertezza – che può far pensare all’incomunicabilità e alla deriva esistenziale del cinema di Antonioni più che al cinismo disturbante e beffardo del cinema di Haneke – confluisce tutto il senso di meraviglia che rende consapevoli di aver vissuto un’esperienza di grande cinema d’autore.
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F Pettinari è critico cinematografico