Traduzione: proviamo a leggere la realtà in modo nuovo

Anche i traduttori nel loro piccolo riflettono

di Marina Pugliano e Anna Rusconi

dal numero di gennaio 2017

Nel 1929 Antonio Gramsci scriveva dal carcere a Tatiana Schucht: “I traduttori sono pagati male e traducono peggio”. Il disappunto nasceva dagli “spropositi” stampati dagli editori, che pubblicavano traduzioni affidate a mediatori linguistici improvvisati; nel caso specifico, a un “avvocato-traduttore” che aveva piazzato “un gran bastimento su una montagna”, laddove “non si trattava del Monte Ararat e quindi dell’Arca di Noè, ma di una montagna svizzera e di un grande albergo”.

Certo, un secolo fa in Italia il traduttore editoriale di professione non esisteva e le traduzioni, opera di persone colte, accademici o altri scrittori, non erano sottoposte al controllo di revisori competenti. Nel 2016, dunque, come vanno le cose? Dai primi del Novecento a oggi di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, ma dopo essersi evoluta la situazione sembra essere implosa. Vediamo come.

Dai tempi di Gramsci l’editoria italiana ha, o meglio aveva, compiuto notevoli passi avanti: basti pensare ai mercoledì torinesi in cui Einaudi, Calvino, Pavese, Ginzburg e molti altri si riunivano per pianificare insieme titoli e uscite, o alle redazioni brulicanti di redattori attenti e motivati, con i quali i traduttori potevano intrattenere un confronto quanto meno vivace (come dimenticare la “signora vedova” di bianciardiana memoria, con la sua ciurma che “alzò i loro cappelli”?)

Negli anni settanta nascevano poi i translation studies, che tentavano di proporre un modello scientifico-teorico capace di analizzare un processo empirico complesso e articolato per mezzo dell’armamentario offerto da discipline come la letteratura comparata, la linguistica, la socio-linguistica, la semiotica, la filosofia, la psicologia e… “compagnia bella”, avrebbe detto il giovane Holden di Adriana Motti. Parliamo dell’affermarsi di concetti e pratiche di tutto rispetto, quali ad esempio la traduzione come opera di negoziazione, l’educazione allo straniamento, il movimento verso l’Altro e l’Altrove, le riflessioni sul dopo-Babele, gli alberghi nella lontananza, l’etica e l’arte dell’ospitalità.

Parallelamente, negli anni ottanta partivano i primi esperimenti formativi e si affacciavano sul mercato i primi traduttori professionisti, formati in apposite scuole e dotati delle competenze necessarie ad affrontare il lavoro sul testo in maniera culturalmente e deontologicamente consapevole. Un simile profilo ben dialogava con un’editoria non ancora industrializzata e globalizzata nei modi e nei tempi di produzione, qual è invece quella odierna. E un simile traduttore etico legittimamente aspirava, e aspirerebbe ancora, a operare su queste premesse, che significano salvaguardia della qualità del proprio lavoro e dei suoi prodotti. In questo senso ci piace sottolineare che gli interessi di traduttori ed editori in linea di principio coincidono, e dovrebbero quindi poterlo fare anche nella pratica quotidiana.

La passione e la serietà dei traduttori letterari non sono infatti soltanto oggetto di mera retorica, bensì ciò che ogni giorno anima e sostanzia forum, liste specializzate, laboratori, articoli e libri in cui questi professionisti entrano, meglio di qualunque trattato teorico-scientifico, nel vivo di un’impresa che Gesualdo Bufalino ha riassunto con magistrale pennellata nella frase: “Quante croci, il traduttore, in cambio di qualche estasi vicaria!”.

Il ruolo del traduttore nel 2016

Il 2016, dunque. Non essendo economiste, non pretendiamo di descrivere in maniera esauriente uno scenario macroeconomico complesso e intricato, ma traducendo libri si finisce non solo per imparare a decifrare le intenzioni e il lavoro dell’autore, o per immaginare il destinatario finale del testo nella lingua d’arrivo, ma anche per leggere tra le righe intenzioni e operato di editori, redattori e uffici marketing. In altre parole, del mercato. E la cosa sicura è che il concetto di obsolescenza programmata si è ormai esteso anche al settore della cultura, quindi al libro. A chi lo fa e a chi lo consuma.

Secondo le stime dell’Osservatorio degli Editori Indipendenti, oggi il tempo di vita medio di una novità sugli scaffali di una libreria italiana si aggira  intorno ai 30-40 giorni, e “quel che non si vende si rende”. A questa “fragilità congenita” si sommano il fatto che il nostro è un paese di lettori storicamente deboli (secondo l’AIE, nel 2015 solo il 42 per cento degli italiani ha letto almeno un titolo) e che, in un sistema ormai improntato al monopolio, la distribuzione può assorbire fino al 63 per cento del prezzo di copertina di un libro. Quel che ci interessa arrivare a evidenziare è che nel contesto attuale domina una dinamica produttiva regolata soprattutto dall’indebitamento e quasi per niente da vere “politiche di investimento”. E perché mai degli imprenditori dovrebbero puntare a una qualità destinata a innalzare i costi di produzione fino a renderli, per qualcuno, addirittura insostenibili? L’importante è che il libro attiri con un titolo accattivante e una copertina a effetto per quei pochi giorni che resterà esposto in libreria.

È perciò lecito chiedersi quale sia stato nel tempo il destino del traduttore etico e consapevole, il famoso alchimista, traghettatore, ballerino incatenato, traslocatore di parole, contrabbandiere, artigiano invisibile, sempre esitante e anche un filo masochista. Un destino abbastanza inglorioso, almeno nella maggioranza dei casi. Perché, privato per logiche mercantili di un contesto che riconosca il giusto valore della sua professionalità, del suo ruolo e dei suoi diritti, il traduttore davvero funzionale a questo mercato di beni fortemente deperibili è diventato il traduttore smart: disponibile in modo incondizionato, privo di cognizione o di memoria storica della cultura e della dignità del lavoro, convinto di valere poco e dunque altrettanto poco remunerabile, pronto a consegnare secondo i ritmi impazziti del mondo globale testi che un redattore di analoga tempra, e sempre più spesso digiuno della lingua di partenza, provvederà a rendere sostanzialmente scorrevoli e in piacevole italiano standard. In barba a San Girolamo, ai translation studies e, in generale, alla civiltà – di cui la traduzione, secondo Josif Brodskij, sarebbe letteralmente “madre”.

Negli ultimi anni di crisi, inoltre, il trend italiano è stato tradurre sempre meno, e questo perché, malgrado i compensi bassi che da sempre caratterizzano il nostro mercato, nel bilancio di una casa editrice la traduzione rappresenta un costo a perdere, così come l’acquisto dei diritti sui titoli stranieri. Da qui la parallela tendenza a ritradurre invece, per compensi non di rado forfettari e da fame, classici e long seller già nel pubblico dominio. Se nelle librerie troviamo ancora opere di valore ben tradotte, spesso lo si deve quindi, oltre che alla coscienza dei singoli, al sostegno e ai finanziamenti degli istituti di cultura stranieri. Mentre nei paesi europei la cultura è considerata una risorsa anche economica e beneficia di sostegni e investimenti mirati, in Italia i pochi e poco incisivi interventi statali nell’ambito della traduzione, a parte il premio nazionale, sono inoltre orientati esclusivamente all’export, cioè alla promozione del libro italiano all’estero. Ma perché non guardare anche al libro straniero come risorsa per la cultura e l’economia nazionali?

Secondo il Rapporto AIE 2016, a fronte di oltre 65.000 nuovi titoli pubblicati (circa 180 al giorno!), di uno 0,2 per cento di aumento del fatturato e di una leggera ripresa nel numero dei lettori, i titoli in traduzione continuano la loro inesorabile discesa, attestandosi sul 17,6 per cento di tutto il pubblicato (negli anni ’90 la percentuale era stabile intorno al 25 per cento, e nel 2003 ancora del 24 per cento). “Si dipende sempre meno dalle traduzioni!” esulta l’AIE in fiero grassetto. Ma questa indipendenza è davvero un buon segnale per la nostra crescita culturale ed economica, o è piuttosto sintomo di un impoverimento? Se l’erosione proseguisse al ritmo attuale, fra trent’anni tradurremmo poco o nulla, nonostante fonti autorevoli ci informino che la fiction straniera continua a essere la più venduta: passi per Il giovane Holden, che i nostri nipoti saranno ben capaci di godersi in lingua originale, ma Anna Karenina dovranno leggerla per forza in cirillico.

Quali scenari futuri?

Nel giro di questi trent’anni, pochi o tanti che siano, sarebbe auspicabile impedire che questo muro invisibile finisca per separarci definitivamente dal resto del mondo. Molte nazioni europee hanno una platea di lettori grande il doppio della nostra e fatturati che l’editoria italiana nemmeno si sogna, e ciononostante investono nel libro fondi sia pubblici sia privati, e moltissimo nella traduzione, cioè nel segmento gravato da costi di produzione più alti ma che, evidentemente, rappresenta una risorsa vitale per la crescita culturale ed economica della società. Svilita questa risorsa nella sua natura, e depredata del suo potenziale, in Italia anziché vivere di interventi congiunti di ampio respiro il mercato editoriale tira a campare di miopi stratagemmi (la politica suicida di indebitamento di cui sopra, il taglio indiscriminato dei costi, ecc.), sognando giorni migliori che arriveranno solo se si deciderà, di comune accordo, di gettarne oggi stesso il seme.

Molte sarebbero le azioni auspicabili e virtuose, ma ci limitiamo qui a due soli esempi. Da un lato, un fondo per i traduttori (come ne esistono in Francia, Svizzera, Germania, Norvegia e in molti altri paesi) costituirebbe uno strumento efficace per incoraggiare gli editori a non rinunciare ai titoli stranieri più impegnativi, o anche solo meno di grido e meno commerciali, e per incentivarli a riconoscere fattivamente la qualità e il ruolo decisivo dei traduttori. Dall’altro, occorrerebbero misure di promozione della lettura parimenti efficaci e capillari, non demandate all’iniziativa dei singoli e dei volontari (scuole, biblioteche, associazioni culturali) e con un Centro per il Libro e la Lettura che non si limitasse a svolgere una funzione prevalente di coordinamento e raccolta dati.

Il nostro contributo sulla traduzione si risolve quindi nell’appello, nient’affatto retorico e rivolto agli interessati di ogni ordine e grado, ad abbandonare logiche divisive fallimentari e categorie analitiche ormai improduttive, per pensare in modo libero nuove forme di coesione e dialogo fra tutti i soggetti coinvolti nella filiera editoriale. Contro il senso d’impotenza generato da una crisi più grande di noi e da uno status quo apparentemente granitico non servono ulteriori, costose e scintillanti vetrine, bensì occasioni di incontro e di confronto coraggiose, mirate a un progetto condiviso e ad azioni concrete che vedano legislatori, editori, traduttori e collaboratori dell’intera filiera seduti come alleati allo stesso tavolo per salvare il vero bene comune: il libro. Noi ci siamo. Vogliamo cominciare?

pleiadi@gmail.com

M Pugliano è traduttrice dal tedesco – A Rusconi è traduttrice dall’inglese