La verità è un inferno domestico
di Francesco Pettinari
Xavier Dolan
È SOLO LA FINE DEL MONDO
con Nathalie Baye, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Léa Seydoux, Marion Cotillard
Canada / Francia 2016
Louis: il bisogno di partire, a ventidue anni, per lasciarsi alle spalle una realtà troppo stretta e seguire la vocazione della scrittura e anche la realizzazione della propria identità sessuale; dodici anni dopo, il bisogno di tornarci in quella realtà per comunicare alla famiglia il fatto che sta per morire: questo il nucleo tematico del nuovo film di Xavier Dolan, È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde), che arriva nelle nostre sale distribuito da Lucky Red, dopo essere stato presentato in anteprima mondiale all’ultima edizione del festival di Cannes, in concorso, premiato con il secondo riconoscimento del palmares, il Grand Prix du Jury, e anche dalla Giuria Ecumenica. Croce e delizia per il regista canadese, classe 1989, portarsi addosso l’etichetta di enfant prodige, di regista-prodigio del panorama cinematografico contemporaneo; a ventisette anni, Dolan sta già lavorando al settimo film, dopo una scalata alla notorietà iniziata nel 2009, a Cannes, con J’ai tué ma mère, proseguita con una serie di opere sempre più apprezzate da critici e cinéphiles, tra cui sono da ricordare Laurence Anyways del 2011 e Tom à la ferme, miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia 2013, fino al grande salto, l’anno successivo, con Mommy, inserito nel concorso principale di Cannes, Premio della Giuria, grande successo di critica e di pubblico. È un cinema, quello di Dolan, che propone, almeno fino a ora, una variazione continua su una serie di temi costanti: dinamiche familiari a dir poco perverse, uno sguardo pessimistico sui legami affettivi, specie quello madre-figlio, e la sessualità in tutte le sue declinazioni. Ma la ragione della sua ascesa e del suo successo sta anche in una idea di cinema che si definisce a ogni tappa, che rivela un talento incredibile rispetto alla confezione e al controllo delle proprie opere: oltre a firmarne la regia, Dolan è anche sceneggiatore, montatore, curatore dei costumi, e in alcuni casi attore; ne emerge uno stile forte, molto personale, arricchito da tutto l’universo visivo che può appartenere a un giovane della sua generazione, da Youtube ai videoclip musicali; chiaramente, ha i suoi ammiratori e i suoi detrattori; tutti devono però riconoscere, insieme a una sorprendente fecondità creativa, un talento registico innegabile. Anche È solo la fine del mondo rientra in pieno nell’universo cinematografico ormai riconoscibile di Dolan, sia narrativamente sia stilisticamente; a Cannes, il film ha diviso la critica, le aspettative nei confronti di un prodigio del resto sono alte, e il film è apparso meno audace, meno originale, rispetto ai lavori precedenti; in realtà, a ben guardare, in questo film si riconosce uno stile sì definito, ma anche, giocoforza, in evoluzione e, data l’età anagrafica del regista, chissà quanto percorso artistico ancora lo attende: valutato da questa prospettiva, il film è una tappa pregevole di un percorso creativo in divenire.
Da qualche parte, poco tempo fa
È solo la fine del mondo non nasce da una sceneggiatura originale, ma dall’adattamento di una pièce teatrale omonima, pubblicata nel 1990 da Jean-Luc Lagarce, un drammaturgo francese che sarebbe morto di Aids cinque anni dopo – i rimandi autobiografici, nel contenuto, sono fin troppo ovvi. Ma bisogna aggiungere una nota assai dolente: Lagarce non è solo l’autore teatrale più rappresentato in Francia, questo può essere comprensibile; dopo Shakespeare e Molière, è il terzo autore più rappresentato nei teatri di tutto il mondo: non può che sconcertare e far riflettere il fatto che in Italia sia pressoché sconosciuto. L’origine teatrale del film avrebbe potuto far scivolare Dolan nella trappola del teatro filmato, ma lui l’ha evitata grazie a una soluzione registica sorprendente; d’altra parte, era inevitabile che la matrice del teatro si avvertisse molto, specie nel fatto che, a parte il prologo iniziale, lo svolgimento del film è basato sul rispetto delle tre unità aristoteliche: di tempo, di luogo, e di azione; era una sfida piuttosto ardua, quella di far dialogare il cinema con il teatro, e sotto questo aspetto, Dolan l’ha vinta a pieni voti.
Un altro elemento pregevole del film è il cast: cinque attori eccellenti del cinema francese dei nostri giorni: Gaspard Ulliel è Louis, il protagonista; Vincent Cassel è Antoine, il fratello maggiore; Léa Seydoux è la sorella Suzanne; Marillion Cotillard è Catherine, la moglie di Antoine; Nathalie Baye è Martine, la madre: tutti bravissimi nell’eseguire il proprio ruolo in questo quintetto da camera, la cui partitura prevede numeri da solista, duetti e concertati, che si succedono condotti dalla direzione virtuosa del regista.
Da qualche parte, poco tempo fa: con questa didascalia comincia il prologo. Louis sta tornando a casa dopo dodici anni, è in aereo, e la sua voce over dice quanto basta per presentarsi e comunicare lo scopo del suo viaggio, l’annuncio della propria morte: «Vediamo come andrà» e partono i titoli di testa. Ad accoglierlo due persone che conosce molto bene, la madre e il fratello maggiore, una che quasi non conosce, la sorella Suzanne che era piccola quando lui se n’è andato; e una che non conosce affatto, la moglie del fratello, dal momento che non è andato al matrimonio e non è stato presente alla nascita dei nipoti – il secondo porta il suo nome. Da subito Louis – e lo spettatore – viene scaraventato in un inferno domestico che si dipana come uno psicodramma. Nell’arco di un pomeriggio, nei diversi ambienti della casa – dal salotto, alla cucina, al giardino, alla camera di Suzanne, alla camera-ripostiglio dove sono conservate le cose di Louis – e con l’unica eccezione di un altro luogo chiuso, l’abitacolo dell’automobile di Antoine, si svolgono i dialoghi serrati come duelli, i confronti verbali, che sono poi la materia narrativa del film: Dolan ha conservato, con lungimiranza, l’efficacia delle caratterizzazioni linguistiche dovute alla scrittura di Lagarce; ogni solista parla un registro narrativo diverso: il balbettio di Catherine, con le sue frasi spezzate e ripetute; la volgarità e la rabbia urlata di Antoine, a significare il suo complesso di inferiorità verso il fratello che è l’artista della famiglia; il bavardage della madre che è un fuggire continuo dalle cose importanti; l’imbarazzo di Suzanne; fino alle frasi sibilline di Louis, fatte di tre parole, le stesse vergate sulle cartoline che ha sempre inviato per i giorni importanti; fino ai suoi sorrisetti ambigui; fino al suo chiedere silenzio. Tutti parlano, tutti sentenziano, si insultano, ma nessuno dice, nessuno comunica; perché in realtà, a dominare è la paura della verità, sia da parte di Louis sia da parte dei familiari, e, di conseguenza, l’incapacità di comunicare i sentimenti: per questo la partitura è giocata sugli estremi, la rissa verbale o il silenzio. Insomma, un carnage verbale tra congiunti, ma, a differenza del Carnage di Roman Polanski – anche quello tratto da un testo teatrale, firmato da Yasmina Reza – qui non c’è un crescendo, e non si rimane nei limiti del politically correct: Dolan, coerentemente coi suoi lavori precedenti, sceglie invece l’eccesso, lo stare sopra le righe, la saturazione – e questo può irritare, va da sé, ma è il marchio della sua impronta.
Primi e primissimi piani
Passando al linguaggio stilistico, la risposta cinematografica di Dolan al teatro è, come si accennava sopra, fortissima: ha scelto di posizionare la macchina da presa a pochi centimetri dai visi degli attori; di mantenere, per quasi tutto il tempo filmico, l’inquadratura sui primi e i primissimi piani; di trasformare i personaggi in volti, in macchine parlanti, in sculture magnificamente illuminate dal direttore della fotografia André Turpin; di farne immagini-affezioni, secondo la definizione di Gilles Deleuze, che di per sé sono segni completi, essendo parti per il tutto: ecco allora l’impressione di claustrofobia, ma anche l’opportunità di vedere – così da vicino – il luccichio degli occhi, la direzione dello sguardo, la mimica facciale, il linguaggio del volto, giustappunto.
La colonna sonora, curata da Gabriel Yared, dà forza a un’altra caratteristica del cinema di Dolan: intanto, amplifica il lato melodrammatico delle situazioni; ma è solo grazie alla musica che si possono aprire momentanee vie di fuga dalla claustrofobia dell’inferno domestico: il suono pop del corso di aerobica della madre e della sorella per il ricordo delle domeniche dell’infanzia e di una felicità perduta; un altro brano per la rievocazione della scoperta della sessualità e dello sballo con un amico – e, in questa sequenza, diventa indelebile la traccia della mano che scivola sul vetro della finestra e che tornerà quando, con crudeltà, Antoine rivelerà a Louis che Paul è morto da un mese di cancro; si può vedere tutto il talento di Dolan nel modellare le immagini sul flusso del registro musicale, facendone intarsi di videoclip che si innestano dentro il flusso del film vero e proprio.
Se ciò che convenzionalmente è definito azione in questo film è accadimento linguistico; se lo svolgimento narrativo racconta proprio lo scacco rispetto alla premessa; se i personaggi sono mostrati nella loro impossibilità di trasmettersi le emozioni – e quindi non può cercarle nemmeno lo spettatore -; allora, in un contesto simile, come comunicare la prossimità della morte? Nel finale, quando il tempo sta per scadere, Louis sembra provarci, prima con il fratello poi con tutti gli altri, ma non possono essere che allusioni: dice che deve partire, che ha un appuntamento – la morte come partenza, come viaggio -; meglio far finta di non intendere, o di fraintendere, di capire che lui abbia davvero un appuntamento per quella sera stessa. E allora, nel sontuoso universo neobarocco di Dolan, la morte può compiersi come accadere simbolico, sotto le sembianze di una metafora: un uccellino, rimasto prigioniero nella casa, cerca di scappare, poi muore sul tappeto appena Louis esce. Come canta nella colonna sonora la cantante parigina Camille, Home is where it hurts – e fa davvero male, molto male, anche allo spettatore.
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F Pettinari è critico cinematografico