A piedi nudi sui vetri della realtà
recensione di Andrea Bajani
dal numero di febbraio 2013
Emmanuel Carrère
LIMONOV
ed. orig. 2011, trad. dal francese di Francesco Bergamasco
pp. 356, € 19,
Adelphi, Milano 2012
Nel 2000 Emmanuel Carrère pubblica un libro che s’intitola L’avversario. È un libro che non è un romanzo, o almeno non si presenta come tale. Il suo autore lo descrive così: “Il 9 gennaio 1993, Jean-Claude Romand ha ucciso moglie, figli e genitori. Poi ha tentato, invano, di suicidarsi. L’indagine ha rivelato che non era un medico come aveva sempre sostenuto e, cosa ancor più difficile da credere, non era nient’altro. Mentiva da diciotto anni, ma la sua menzogna non copriva nulla. Quando stava per essere scoperto, ha preferito sopprimere tutte le persone di cui non avrebbe potuto reggere lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo. Io sono entrato in contatto con lui, ho assistito al suo processo. Ho tentato di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, questa vita di solitudine, d’impostura e d’assenza”. Dopo poco più di cinquanta pagine, scrive: “Pensavo alla stanza in cui vado ogni mattina, dopo aver portato i bambini a scuola. Quella stanza esiste, chiunque può telefonarmi e venirmi a trovare. Quando sono lì, scrivo e sistemo copioni che in genere finiscono sugli schermi. Ma so che cosa significhi passare le proprie giornate senza testimoni, sdraiato a guardare il soffitto per ore, con la paura di non esistere più”.
Nello spazio che intercorre tra questi due passaggi di L’avversario, c’è tutto il mondo letterario di Emmanuel Carrère che prende forma. È lì, con quel romanzo non romanzo, che comincia a disegnarsi la parabola di uno degli scrittori europei più interessanti oggi in Europa. Da una parte la vita di uomo reale, iscritto a un’anagrafe, e dall’altra qualcuno che dice “io”, che scrive, che fa lo scrittore, e che, nell’assumere su di sé la storia di quell’uomo, s’accorge che succede qualcosa, che avviene una combustione, e da quella combustione si accende un fuoco. Quel fuoco è la letteratura. Con L’avversario si accende il primo fuoco, e libro dopo libro cresce, mette in crisi l’idea della forma romanzo. Fino a divampare ora con Limonov, il libro che gli è valso, finalmente, il riconoscimento che meritava da tempo anche in Italia, di critica e di pubblico. In mezzo c’è stato Un roman russe (tradotto in italiano con il titolo meno felice La vita come un romanzo russo, Einaudi, 2009) e soprattutto Vite che non sono la mia (Einaudi, 2011), libro chiave per entrare nella poetica di Carrère.
L’inizio era stato quanto di più lontano, apparentemente, da quello che avrebbe scritto poi. Si intitolava Philip Dick 1928-1982. Una biografia (Theoria, 1996), ed era appunto una biografia, intesa in senso tradizionale, dell’autore di Ubik. Era un libro documentato, di grande intelligenza, ma Carrère poteva apparire come un appassionato di cinema e letteratura. C’erano gli appassionati di Dick, che lo tenevano in biblioteca come un libro importante per entrare nei meandri del grande scrittore di fantascienza. Ma non c’erano ancora gli appassionati di Carrère. Poi cominciò ad aprirsi una via narrativa: prima uscì il romanzo Baffi (Bompiani, 2000), storia di un uomo che va in crisi perché nessuno si accorge che si è tagliato i baffi, e La settimana bianca (Einaudi, 1996), romanzo breve, denso di inquietudini, su una gita scolastica sulle nevi. Ma siamo ancora nel solco di una letteratura in cui l’irrisolto (il perturbante, anche) apre una crepa nella superficie più o meno rassicurante del racconto finzionale della realtà. Nel racconto della realtà che conosciamo, nelle storie che inventiamo, ci sono anfratti in cui si annida un grumo di follia. Se lasciamo crescere – nella finzione – quel seme, la realtà può diventare insidiosa, e il rischio che la follia sbanchi il banco mette in agitazione. Leggendo quei primi romanzi, il lettore sente che c’è qualcosa che si muove, sotto, e chiude il libro. Ma il libro è la finzione, e chiuso il libro resta il mondo di fuori, per il lettore. Bello o brutto che sia.
Poi, appunto, arriva Jean-Claude Roman. È un uomo normale, all’apparenza, ma ammazza moglie, figli e genitori dopo aver passato un pezzo di vita nella menzogna. È un uomo che vive fuori dai libri. Non è una storia, è una persona che cammina per strada. La realtà, quella fuori dal libro, spacca come una sassata il vetro della stanza in cui Carrère va a scrivere. A questo punto non vale più lucidare la superficie trasparente del romanzo, e lasciare che sotto si vedano ombre inquietanti. Carrère raccoglie quel sasso che ha mandato in frantumi, e con quel sasso raccolto si apre una stagione fondamentale per la letteratura europea di questi anni. Carrère, con la manciata di vetri rotti che sono gli strumenti del suo mestiere, entra in contatto con Romand, e scrive un libro. Romanzo? No, ma poco importa. È un libro di Carrère. Qualcuno dice sia la strada già percorsa da Truman Capote con A sangue freddo, e in parte forse è così. Ma c’è qualcosa di diverso, che già si affaccia: realtà e finzione non si escludono, né si mescolano. La realtà avvelena la finzione, e la finzione avvelena la realtà.
Da lì la strada è inarrestabile. La vita come un romanzo russo è un libro bellissimo, in cui Carrère racconta di un (proprio?) tracollo sentimentale e di una (propria?) ricerca in Russia, di un’arrampicata tra i rami dell’albero genealogico. In Italia, a differenza che in Francia, se ne parla poco, o non abbastanza. I lettori ancora non lo conoscono, i cultori cominciano però a farsi sentire. Poi esce Vite che non sono la mia, che è un capolavoro, ed è la chiave per capire il suo percorso. L’assunto di fondo è semplice. Carrère è testimone di due storie di dolore: la morte di una bambina durante lo tsunami del 2004 in Sri Lanka e la morte di una donna per i suoi figli e suo marito. “Poi qualcuno – scrive Carrère – mi ha detto: tu sei uno scrittore, perché non scrivi la nostra storia? Era come un ordine, un impegno, e io l’ho accettato”. Ecco dove sta il punto. Qualcuno consegna allo scrittore la sua storia, e gli chiede di raccontarla. Di più: gli chiede di raccontargliela, quasi nella speranza che passando sotto l’arco della letteratura in qualche modo il dolore si possa sanare, la storia si possa riaggiustare, la vita possa battere la morte, la scrittura conferire un senso a ciò che senso non sembra avere. Carrère lo fa – e sta qui il disvelamento della sua strada – nell’unico modo che gli è possibile: diventando quelle storie. Lo scrittore non può che raccontare la propria storia, e dunque l’unica possibilità che ha per raccontare vite altrui è assumerle su di sé, permettere che facciano invasione. Solo portandone testimonianza diretta, solo a patto di trasformare in vite mie le vite che non sono le mie, lo scrittore può raccontare la realtà.
E arriviamo qui, in conclusione, a Limonov, libro comprensibile fino in fondo soltanto conoscendo la parabola dei precedenti libri di Carrère. E cos’è Limonov? È il racconto della vita di Eduard Limonov, attivista russo, scrittore, conosciuto anche da noi per le sue posizioni radicali. Carrère lo descrive così: “È stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio”. Limonov ha raccontato la sua vita in molti romanzi (tra questi, in Italia, Libro dell’acqua, Alet, 2004; Diario di un fallito oppure un quaderno segreto, Odradek, 2004; Eddy-Baby ti amo, Salani, 2005), e Carrère li ha letti tutti. Poi ha anche incontrato l’autore. È ai racconti scritti da Limonov che si rifà, per raccontarne la vita. Ovvero: riracconta la vita di un altro già raccontata dall’altro medesimo. E la vita che Carrère racconta, il fuoco che si accende nella combustione tra l’io dello scrittore-Carrère e la storia dello scrittore-Limonov, è un libro di una potenza inusitata, ed è insieme racconto di una vita e della Russia del primo decennio del Duemila. Ma noi ormai sappiamo che quella che racconta è la propria, di vita. Lasciamo ai lettori, per ragioni di spazio, l’onere e la sorpresa di fare il viaggio di Carrère/Limonov, in quelle pagine.
Ed è qui, per concludere, che ritorniamo all’inizio, da un punto che sembra lo stesso eppure è il segno della strada personalissima disegnata da Carrère in questi anni. All’inizio era una biografia di Philip Dick. Alla fine, ora, quella che potrebbe essere scambiata per la biografia di Edouard Limonov. Ma la distanza è abissale. In un’intervista a Limonov, a un giornalista che gli proponeva la definizione che Carrère dava di lui (“Un genio con una vita di merda”), Limonov ha risposto “Questo lo dice lui”. Eccola qui, la distanza abissale. In mezzo, tra le due biografie ai due capi del filo, c’è tutto il resto, c’è la sassata della realtà che ha mandato in frantumi la forma romanzo e il racconto della realtà. C’è Romand, c’è la bambina persa nello tsunami, la mamma uccisa dal cancro. Limonov è uno di loro. E Limonov, dunque, altro non è che il grande romanzo di uno scrittore che cammina a piedi nudi sui vetri della realtà con un sasso in mano. Il sangue che esce dalle piante dei piedi, però, è tutto suo, è tutto nostro.
A Bajani è scrittore