Le pubblicazioni dell’anniversario: scorci di uno scrittore a trent’anni dalla morte
di Virginia Giustetto e Francesco Morgando
dal numero di dicembre 2016
Alcune importanti uscite editoriali a trent’anni dalla morte hanno celebrato i libri di Goffredo Parise, risvegliato il dibattito critico che gli sta intorno e hanno in parte ridisegnato il profilo di uno scrittore che pubblico e critica hanno accolto in modo discontinuo. Senza la pretesa di inquadrare la sua figura a tutto tondo, ci si affida agli scorci che le pubblicazioni di un anniversario (con tutte le contingenze del caso) ripropongono. Parise è sempre stato un bravo scrittore, uno fra i più bravi, ma nell’ideale foto di gruppo degli autori del secondo Novecento gli mancano la compostezza e l’aplomb necessari alla prima fila. Forse perché non guarda nell’obiettivo, forse perché è l’obiettivo a lasciarlo sempre un po’ fuori fuoco. Oppure perché, come scriveva Zanzotto, al «percorso rettilineo, un po’ inamidato», Parise preferisce «la linea spezzata».
A tinte scure
Ad andare con ordine ci sarebbe un capitolo zero, I movimenti remoti, testo portato alla luce da Emanuele Trevi soltanto dieci anni fa e prodromo di quel Ragazzo morto e le comete che segna invece il vero ingresso di Parise sulla scena. Pubblicato nel 1951 da Neri Pozza e successivamente riproposto con alcune modifiche da tre editori diversi (a testimonianza del mancato sodalizio tra lo scrittore e una casa editrice in particolare), Il ragazzo morto è oggi ripubblicato dal suo primo editore, con introduzione di Ermanno Paccagnini e alcune fotoriproduzioni del manoscritto originale. Il testo è quello del 1951, «frutto dolorosamente di un grande talento», risultato dello scontro tra Parise e Neri Pozza sulle modifiche che secondo quest’ultimo erano necessarie. Vinse Parise, costringendo l’editore a scrivere un’avvertenza riguardo all’«ostinazione spavalda di chi ha davanti una vita e si ripromette di trarre da questa nuove esperienze», che ben descrive gli spigoli di un Parise ventenne, e che presagisce, in qualche modo, il futuro che lo aspetta. Il suo è un esordio fulminante, un racconto della guerra tutto guizzi e fughe, che non concede compromessi di stile e disorienta il lettore. Qui le case diroccate e smarrite nel pantano del conflitto sono lo specchio di una trama «con un’imprevedibile compresenza del continuo e del discontinuo» (Zanzotto), in cui i personaggi affiorano e scompaiono tenendosi in equilibrio su un terreno sconnesso. Calvino, molti anni dopo, prendendo Parise a esempio di una generazione di scrittori, parlerà con rimpianto di «forza di trasfigurazione, ricchezza, libertà, coraggio, cattiveria, insomma poesia»: slanci a cui il neorealismo ha «tarpato le ali», controstoria non percorsa o interrotta sul nascere.
Il ragazzo protagonista, insieme ai personaggi lividi e strampalati di cui si circonda – Abramo, Squerloz, Edera, Antoine, l’inseparabile amico-doppio Fiore – si muovono in una realtà in cui la guerra è descritta senza il presagio di una ricostruzione a venire, che per questo motivo si concretizza in spazi bui e claustrofobici circondati da acque che sono paludi. In questo mondo disarmonico e «cubista», come lo definiva lo stesso Parise, si fa fatica a percepire il confine tra il reale e l’onirico, tra il passato e il presente, soprattutto tra la vita e la morte.
A Roma in Spider
Dieci anni dopo Parise non vive più in Veneto ma a Roma (in mezzo l’esperienza milanese). Lo ritroviamo lanciato a tutta velocità su una spider rossa Mg. Di fianco Carlo Emilio Gadda, trentasei anni più vecchio, terrorizzato, il cappello stretto in una mano e l’altra già pronta sul freno a mano. Nel frattempo Parise ha scritto una trilogia cominciata con il primo bestseller italiano del dopoguerra, Il prete bello, e sta per scrivere Il padrone, il romanzo che lo proietterà in una dimensione non più provinciale e in cui il lirismo a suo modo romantico dei libri precedenti viene soppiantato dal grottesco.
Il carteggio Se mi vede Cecchi, sono fritto (Adelphi, 2015) con l’ampissimo apparato testuale di Domenico Scarpa in cui si ricostruiscono tempi e modi di un sodalizio un po’ inaspettato, è un ottimo strumento per conoscere la parentesi romana e cinematografica di Parise – sono gli anni, questi, in cui collabora con Cinecittà – ma anche l’autore oltre i suoi libri, l’uomo più che lo scrittore. D’altronde il rapporto con Gadda «non fu – non fu in primo luogo – un legame fondato sulla letteratura e sulle reciproche letture». Sono poche lettere, quindici di Gadda e due di Parise, a cui si aggiungono quattro scritti che quest’ultimo dedica all’Ingegnere, definito «l’uomo più spiritoso, espirituoso e dotato di humour di tutta la letteratura italiana» e insieme «mongolfiera terminologica». Senza i quattro scritti avremmo un carteggio monologante in cui i pensieri di Parise si intuiscono, in controluce, tra le parole di Gadda. Questo accade perché le sue risposte sono andate perse, e sembra quasi che il caso abbia voluto metterci del suo, nel favorire l’idea di un uomo evanescente, o presente ma fuori fuoco, ancora una volta. Quando Parise tornerà in Veneto, concludendo la «convivenza» con Gadda (erano vicini di casa), i due continueranno a scriversi e il legame si manterrà a distanza. Curioso come Gadda vaneggi per molto tempo una visita all’amico, ma «le minacce dei suoi mali» (reali, immaginari e immaginifici) non glielo permetteranno mai.
Provincia
La dialettica centro-provincia è una costante nella vita e nei libri di Goffredo Parise. È sempre un andare e ritornare, prima da Milano, da Roma, poi dalla Cina, dal Vietnam, dal Biafra, costruendo cerchi dal raggio sempre maggiore, fino a trovare il suo «Eden a forma di labirinto» a Salgareda, con vista sul Piave. Nell’ultimo numero di «Riga», a lui interamente dedicato, c’è una recensione del Padrone firmata da Kurt Vonnegut che a posteriori ci racconta bene la distanza culturale e il punto di vista di uno scrittore americano a confronto con il dibattito nostrano. È una stroncatura, perché, agli occhi di Vonnegut, «il nostro ragazzo di provincia», sembra non aver fatto neppure un passo oltre l’androne e «pare accorgersi solo adesso della rivoluzione industriale». Fatto curioso, questo, perché, appena pochi anni prima, toccava a Parise parlare degli americani che avevano invaso Vicenza, la sua città. Così, se nel Padrone è la provincia che va alla conquista del centro, qui è il centro (il centro del mondo) che invade la provincia. Nel 1966, infatti, esce la prima edizione della raccolta Gli americani a Vicenza, poi ripubblicata, con integrazioni, nel 1987 da Mondadori e oggi da Adelphi. Si tratta di un libro minore ma indicativo, poiché con esso si conclude e si compie, come scriveva Cesare Garboli, «l’esperienza giovanile e ‘veneta’ di Parise e la sua prima fase di stile». Tutti i racconti sono scritti tra il 1952 e il 1965, e il primo tra questi, che dà il titolo al libro e a cui lo scrittore lavora nel 1956, sembra proprio collocarsi a metà strada tra il Parise «magico e surrealista» del Ragazzo morto e l’autore più realista e disincantato che si fa strada nei racconti successivi. L’espediente narrativo è l’arrivo delle truppe della Setaf (Southern European Task Force) a Vicenza, città in cui lo scrittore si trova per far visita alla madre. Decide così di scrivere un reportage, ma presto si rende conto che il testo prende un’altra piega, con gli americani che diventano quasi degli alieni. Più tardi dirà: «È un’intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti dimenticati (uomini e cose)». A seguire ritratti brevi e piani di vita di provincia, in cui si muovono zitelle e preti, parenti poveri e nobili decaduti. Sono storie, queste, che ancorano Parise alla sua terra, prima dell’esperienza da reporter in Oriente e prima dello slancio, potremmo dire senza luogo e senza tempo, dei Sillabari.
Violenza
C’è un nome che ritorna spesso nei testi di Parise e in quelli critici a lui dedicati: Charles Darwin. «Darwiniano funebre e disperato» lo definirà Ceronetti, e il naturalista ricompare anche nel carteggio con Italo Calvino (raccolto ora su «Riga»), a proposito del dialogo L’infinito naturale. Ma Darwin e il darwinismo sono da tenere a mente soprattutto leggendo Goffredo Parise, i sentimenti elementari di Lucia Rodler. Si tratta di un ritratto completo, che indaga con profondità la vita, le opere e il pensiero di Parise, con un approccio critico dai risvolti anche didattici. Rodler sceglie una bussola curiosa, che le permette, però, di orientarsi molto bene nella descrizione delle tante anime di Parise: la natura della violenza come tensione e approdo di tutto il suo lavoro narrativo. A un primo sguardo può sembrare un approccio forse un po’ limitante (e va detto che comunque Rodler non compie una forzata riductio ad unum), ma la violenza è in effetti un ottimo contenitore, capace di raccogliere e dare un ordine ai diversi sguardi, stili e questioni che Parise ha fatto propri nel suo percorso. Grazie a Darwin il concetto di violenza allarga notevolmente i suoi confini semantici, tenendo insieme il dentro e il fuori, lo sguardo sul mondo (la politica, i rapporti sociali, l’esotico) e lo scavo interiore (i sentimenti umani). Questa prospettiva è valida sicuramente per il Parise reporter, e nei suoi articoli dal Biafra, ad esempio, lo scrittore scriverà della fame e della guerra come «spaventosa regola della supremazia biologica della ricchezza sulla povertà», superando il dato storico-politico e trasferendo la partita sul piano esistenziale. Ed è valida altrettanto per i romanzi e i racconti, in cui egli «la riconosce, la smaschera, la cerca in ogni circostanza». Si pensi a come decostruisce la società di massa nel Padrone, ma anche a come punta l’indice contro l’asfissia di provincia nella trilogia cominciata con Il prete bello.
A tinte chiare
Questi sono alcuni degli scorci possibili, ce ne sarebbero molti altri. Ma tutti i fili in ultima istanza convergono e confluiscono nei Sillabari, testamento più poetico che narrativo, con cui Parise si congeda in punta di piedi raggiungendo le sue vette maggiori. I racconti sono avvolti da «una tinta perlacea, trasparente, grigia e nevosa, uniforme» (Garboli), rovescio rispetto alle atmosfere scure del Ragazzo morto e le comete. Ma i Sillabari sono una casa abbastanza grande da contenere tutte le esperienze precedenti: il bianco, quindi, più che una tinta opposta è lo spettro che ha assorbito tutti i colori.
C’è un’altra parola che torna spesso, la usa Giosetta Fioroni e ricorre in «Riga» in momenti diversi, ed è la parola mood. Il mood che è un di più rispetto allo stile, una forma così compatta da diventare quasi musica. È una cadenza narrativa, un coagulo di situazioni e movimenti, quella postura sghemba, a tre quarti, che si percepisce nell’ideale foto di gruppo da cui questo percorso è cominciato. Scriveva Zanzotto che Goffredo Parise non è stato un maestro «nel senso dell’aver più o meno pontificato con sue teorie della letteratura, ma è stato sempre un maestro perché arrivava con assoluta tempestività nel punto giusto in cui doveva svolgersi il discorso». Questa tempestività lo fa giungere un momento prima o un momento dopo rispetto agli altri, come se ci fosse sempre una piccola sfasatura. Se nel primo caso, al momento di scattare la foto, sembra già pronto per andarsene, nel secondo ne esce trafelato, un po’ estraneo alla situazione, impreparato a mettersi in posa. Allora si volta appena, in posizione obliqua, ed è tenendo a mente questa immagine che lo rivediamo oggi, a trent’anni dalla sua morte.
V Giustetto e F Morgando sono critici letterari
Territori contigui: la recensione a Lettere d’amore, una raccolta di missive tra Goffredo Parise e Giosetta Fioroni.