Meglio non occuparsi degli altri
recensione di Cinzia Schiavini
dal numero di novembre 2016
Philip Roth
LASCIAR ANDARE
ed. orig. 1962, trad. dall’inglese di Norman Gobetti
pp. 218, € 24
Einaudi, Torino 2016
Per il suo corposo romanzo d’esordio (pubblicato nel 1962, subito dopo la raccolta di racconti Goodbye Columbus, e ripubblicato quest’anno in una nuova traduzione di Norman Gobetti), Philip Roth sceglie un avviluppato intreccio di passioni e inazioni, che ha la sua origine nella New York degli anni cinquanta, una parentesi ad Iowa City e il suo centro e sviluppo a Chicago, dove lo stesso Roth per un semestre frequentò i corsi del Phd e insegnò. Al centro, Gabe Wallach, giovane benestante di famiglia ebrea, dottorando in letteratura e con una grande passione per Henry James (autore che peraltro riverbera nella complessità di intreccio e nella vastità di scenari del romanzo stesso). Da poco orfano di madre e del suo morboso legame, Gabe decide di lasciare il padre, affermato dentista che mal elabora la propria vedovanza (e desideroso di riversare affetto sul figlio perlopiù sotto forma di richieste di presenza e pulizie odontoiatriche), e di trasferirsi nell’Iowa, per studiare e poi insegnare letteratura all’università. Qui l’incontro con Paul e Libby Herz, il primo di lui collega, la seconda nevrotico e insoddisfatto amore, per Gabe non vissuto, che gli cambierà per sempre l’esistenza, in un triangolo di attrazione e avversione intenso e senza vere uscite. Il desiderio di Gabe e Lizzy di vivere «il mondo dei sentimenti»; una lettera dal letto di morte della madre di Gabe infilata nella copia di Ritratto di signora che finisce fra le mani di Libby; la fragilità fisica e psicologica di quest’ultima e la convinzione di una comunione spirituale fra i due; il desiderio di Gabe di fare del bene, col rischio, che qui si avvera, di rimanere intrappolato nelle maglie della vita altrui – il tutto sullo sfondo dell’America (grigia) degli anni cinquanta, osservata da ravvicinata distanza, solo una decina di anni dopo.
C’è dentro tutto
Dentro Lasciar andare, forse il più prolisso e convenzionale dei romanzi di Roth, c’è davvero tutto; in particolare, ci sono già tutti i temi chiave del Roth maturo: c’è la morte, l’amore, il sesso, ci sono le famiglie disfunzionali, c’è la sofferenza degli affetti, c’è la religione e l’ebraismo in particolare (che grande peso avrà nel matrimonio di Paul e Libby, abbandonati dalle famiglie quando decidono di sposarsi). C’è soprattutto, in questo romanzo, il discorso mai sopito della classe, solo in apparenza secondario nella affluent society degli anni cinquanta. Lo troviamo nel rapporto travagliato fra l’altoborghese Gabe e la proletaria Martha Reganhart, il contraltare di Libby: cameriera impulsiva, generosa, in lotta con la vita per mantenere se stessa e i due figli dopo essere fuggita da un marito manesco, che metterà Gabe davanti ai reali problemi della vita nella loro non semplice convivenza. Ma lo si trova anche nella miseria, che da materiale si fa fisica e spirituale, che corrode dall’interno il matrimonio fra Paul e Libby, quando la mancanza di sostegno delle rispettive famiglie ai due giovani studenti li condannerà a lavori pesanti e malpagati, a stanze in affitto e appartamenti grigi e spogli, e costringerà Libby a ricorrere all’aborto clandestino per paura di non poter mantenere un figlio solo pochi anni dopo invano cercato. Una sofferenza fisica che pervaderà lo spirito e gli aneliti intellettuali dei protagonisti, e che non li lascerà mai: nemmeno quando Paul, anche grazie all’aiuto di Gabe, riuscirà a essere assunto all’università di Chicago; e nemmeno quando Martha sembrerà a tratti trovare la stabilità economica che le consente di vivere dignitosamente.
Non è un romanzo facile, Lasciar andare, cupo e clastrofobico com’è, seppur pervaso da lampi di caustico sarcasmo e di grottesca comicità. Non è facile perché racconta squallore, tumulti emotivi, inferni domestici, solitudine, sogni infranti, disperazioni esistenziali di Gabe e del suo mondo altoborghese, dove i genitori si concedono grand tour europei e compagnie invadenti per scacciare i fantasmi della solitudine e le ex-fidanzate si reincontrano accasate a uomini impresentabili ma facoltosi; e disperazioni proletarie di Martha, Paul, Libby e di una vasta schiera di comprimari: di vecchi che vivono e litigano per questioni economiche in misere stanze in affitto, o di una ragazza diciannovenne che vende il proprio figlio per poi ritrovarsi imprigionata a far da serva a un operaio disoccupato con prole.
Ma è forse questo il grande pregio di Lasciar andare: di mettere insieme l’alto delle idee e dei puri sentimenti e la realtà più cruda e dolorosa; di calare, fra aborti, divorzi, ricatti, adozioni e mercato nero, ragazzi poco più che ventenni, aspiranti critici e scrittori, e dipingerli mentre annaspano dentro un claustrofobico pantano a cui la letteratura non li ha abituati. Vederli mentre si avviluppano e ingarbugliano dentro se stessi e nelle relazioni con gli altri, che sono ossessive, nevrotiche, verbose e spesso disperanti come le loro personalità.
Occuparsi degli altri, pur con le migliori intenzioni, non è sempre la strada giusta, ci dice Roth, pena il rendersi infine conto della propria inutilità. Bisogna anche imparare a «lasciar andare», a liberarsi dagli intrichi in cui ci costringiamo per presunta generosità, ma che è forse in fondo una irrequietudine e una ricerca di senso della nostra stessa, vita.
cinzia.schiavini@gmail.com
C Schiavini è ricercatrice presso l’Università di Chieti-Pescara