Alla ricerca di una disciplina letteraria
di Vittorio Coletti
dal numero di novembre 2016
Giorgio Ficara è uno degli ultimi critici “puri” della letteratura italiana, cioè uno di quelli che ancora si pone, di fronte a ogni testo o problema affrontato – nell’ultimo libro, Lettere non italiane. Considerazioni su una letteratura interrotta (pp. 334, € 13, Bompiani, Milano 2016) soprattutto la critica stessa e il romanzo contemporaneo –, qualche domanda sul senso e lo spazio culturale della letteratura e del suo studio, e che ancora ha (o si sforza di avere) un’idea della letteratura (della sua lingua, della sua funzione) prima di passare ad analizzarne qualche campione (più spesso, ahimè, oggi, nelle nostre lettere, “senza valore”). Si può condividere o meno ciò che il libro dice. Ma se ne desume un senso. E anche una ragione per leggerlo, perché quasi mai un saggio è leggibile se non ha una ragione forte o la ricerca di una ragione forte.
A me ha suggerito una riflessione sulla critica letteraria italiana che mi si consentirà di accennare qui. Partirò da una constatazione. Oggi si fa un’ottima filologia; una scrupolosa analisi dei testi; una buona storia della cultura: ma critica letteraria vera e propria ne circola poca e quella poca gli editori si guardano bene dal pubblicarla perché nessuno la leggerebbe. Perché? Prima di tutto perché la letteratura attira poco gli interessi pubblici e non è più quel vettore di conoscenze e quel luogo di formazione del giudizio pubblico che è stata in passato. Ficara si chiede se questo dipende dalla crisi dello statuto stesso della letteratura o da quella contingente della nostra. Probabilmente da entrambi. Io mi limito ad osservare che è difficile che ci sia una buona critica se non c’è una buona letteratura o se la letteratura non interpreta più il proprio tempo. Là dove la letteratura è fragile o malata o senza ragioni forti neanche la critica letteraria sta bene. De Sanctis (cui Ficara dedica acute pagine) ha scritto la sua stupenda Storia della letteratura italiana quando la letteratura era in prima fila nel legittimare il nuovo stato. Pasolini ha scritto i suoi acutissimi saggi critici quando la letteratura sembrava la strada più efficace per denunciare quello vecchio. Sanguineti ha riscritto tanto genialmente quanto arbitrariamente l’immediato antecedente poetico della modernità (Lucini) perché voleva crearsi da solo i propri genitori letterari. Contini interpretava e guidava Montale in contemporanea con l’uscita delle sue poesie.
Oggi non c’è più il ruolo sociale della letteratura, né quello politico; non c’è più un Montale, né un critico che ne segua e orienti l’opera in fieri, e nessuno sentirebbe il bisogno di cercarsi gli antenati del proprio modo di scrivere perché sarebbe futilmente convinto di averlo inventato lui (il delirio di originalità degli incolti). Questa dunque, della malattia della nostra letteratura, la prima ragione della crisi della critica letteraria. Ma non è una ragione sufficiente.
L’altra ragione sta nella critica stessa. Oggi la critica è innanzitutto filologica: ottimo; ma la filologia distanzia, colloca nella sua diversità lontana un testo, mentre la critica, pur partendo dall’accertamento filologico di quella distanza, dovrebbe avvicinarlo ai lettori. Se non è filologica, la critica oggi è, nelle università, storico-erudita: benissimo, ma anche questa è una strada che allontana nel suo passato il prodotto e i protagonisti letterari. Gustosa e fertile. Ma applicabile a qualsiasi tipo di scrittore e prodotto scritto, anche non o scarsamente letterario. La critica dovrebbe mediare tra il testo (magari remoto nel tempo) letterario e i suoi lettori. Perché non lo fa? Prima di tutto perché non ne vede la ragione nei testi studiati. Se uno infatti si misura con le poesie del Monti è difficile che trovi delle convincenti ragioni per proporle al lettore di oggi o dovrà trovarne di tanto raffinate e sottili da risultare inattingibili ai più. Giustissimo studiare il Monti. Utilissimo per il progresso delle conoscenze specialistiche. Ma arduo giustificarne il perché a quel livello più largo che meriti un libro da un editore commerciale. Per l’esperto, l’addetto ai lavori, non c’è bisogno di giustificazioni. Ma per il lettore comune sì. Prima conseguenza: la critica letteraria si può esercitare solo su pochi grandi testi di pochissimi autori, che, per così dire, si autogiustificano con il loro valore di “classici”. Se no, è altra, anche bellissima cosa (erudizione, storia della cultura, filologia, analisi dei testi, storia della letteratura), ma non è critica letteraria. Per di più i grandi testi di grandi autori della letteratura italiana, anche novecentesca, sono pochi. Forse è per questo che i migliori critici italiani di oggi sono esperti di letterature straniere (Magris, Fusini, Vitale, Piperno…).
Ma c’è un’altra ragione dell’inadempienza della critica (italiana) nella sua funzione di mediazione tra i testi e i lettori. Una ragione che va oltre la mediocrità della nostra letteratura corrente e l’insignificanza di quella minore del passato studiata nelle università. Sta nell’incapacità della critica a misurarsi con la distanza dei testi letterari dai lettori. Sono già distanti dai nuovi lettori i testi letterari attuali, perché (come ha intelligentemente notato Marino Barenghi nel convegno degli italianisti dell’ADI tenuto a Genova a maggio per discutere di didattica della letteratura) usano una funzione del linguaggio desueta e marginale (purtroppo) nell’universo espressivo e comunicativo attuale (persino un romanzo di Baricco è a mille miglia dagli orizzonti linguistici di un lettore medio odierno, specie se giovane).
Sono ovviamente ancor più distanti i testi letterari antichi, perché la critica letteraria non si è neppur data la pena di rendersi conto che il Novecento è già il secolo scorso e che quindi l’Ottocento non è più il padre della modernità, ma il nonno… e così via retrocedendo. Ora, quando ci si allontana tanto dalla contemporaneità, si risale indietro – e specie se non si passa attraverso i pochi autori che sopravvivono a tutti i tempi (Dante, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Svevo, Montale, Calvino, Caproni…) – , ci si deve rendere conto che o si usano delle mappe intelligenti e capaci di incuriosire il moderno viaggiatore o questi rinuncia al viaggio. La critica letteraria non ha oggi itinerari da proporre per viaggiare nella letteratura e per questo sorprende con piacere un libro che invece ne ha qualcuno (magari anche molto selettivo, come quello di Ficara). Non ci sono più gli Auerbach (realismo) o i Frye (mito) o i Contini (espressionismo) o i Debenedetti (personaggio) a proporre solidi percorsi di lunga durata. E il critico spesso non ci prova neppure. Un solo esempio: possibile che continui a non fare problema il rapporto tra la letteratura italiana e quella internazionale, che è invece forse uno dei maggiori e dei pochi interessanti e immediatamente istruttivi? Il fatto è che, quando si accostano terre lontane (e non parliamo se di scarsa seduzione), o si trovano approdi nuovi e fertili (ne hanno tentato qualcuno intellettuali di qualità come Giulio Ferroni e Alfonso Berardinelli) o si gira al largo. Alla critica letteraria sono infine venute meno anche le ragioni politiche e sociali, ideologiche, che alimentano appressamenti alla letteratura che partono dall’attualità e quindi carichi, perlomeno, di passione politica, di interesse sociale. La critica letteraria deve essere sempre un po’ militante; e meglio troppo che niente. Ora, da qualche anno, la critica è solo e magari impeccabilmente accademica, perché quelli che più la esercitano (i professori universitari) non sono più degli intellettuali, ma solo, quando va bene, degli studiosi (cfr. il pungente libro di Federico Bertoni, Universality. La cultura in scatola, pp. 216, € 15, Laterza, Bari 2016).
Insomma, non ci sono gli autori; e non ci sono i critici. Non è un caso se gli ultimi grandi critici (Garboli) si sono quasi creati loro il testo e l’autore che gli serviva (Pascoli) oppure sono essi stessi (in tutto il mondo, però, non solo in Italia) scrittori di valore, che si confrontano con colleghi vicini o lontani. Ma la genialità dei grandi solitari è un caso che si verifica ogni morte di papa; e oggi i papi si limitano a dimettersi; e in Italia non ci sono grandi scrittori, men che mai di quelli che possano trasformarsi, all’occorrenza, anche in grandi critici.
vittorio.coletti@lettere.unige.it
V. Coletti insegna storia della lingua italiana all’Università di Genova