Terrorismo e propaganda: supereroi umani, troppo umani
di Andrea Pagliardi
dal numero di febbraio 2011
L’8 settembre 2007 viene proclamato il V-day, movimento di opposizione al governo Berlusconi nato sul web e patrocinato da Beppe Grillo: in diverse piazze d’Italia e davanti alle ambasciate di tutto il mondo migliaia di persone manifestano sotto enormi «V» rosse. Nel 2008 in molte città del mondo (Boston, Los Angeles, Pittsburgh, Toronto, Edimburgo e Londra) torme di manifestanti travestiti da Guy Fawkes protestano contro la chiesa di Scientology e la coercizione esercitata sui suoi membri. Il 23 maggio del 2009 a Londra centinaia di dimostranti indossano la stessa maschera e manifestano di fronte al palazzo di Westminster contro lo scandalo delle spese parlamentari denunciato dal «Daily Telegraph», dopo aver costruito una finta barriera di polvere da sparo.
Fantapolitica distopica
Tutti questi episodi, di per sé irrelati e animati da motivazioni e obiettivi differenti, sono accomunati dal fatto di avvenire sotto l’egida di simboli che sono un richiamo esplicito al romanzo a fumetti V for Vendetta, scritto da Alan Moore e disegnato da David Lloyd, pubblicato originariamente tra il 1982 e il 1985 e riproposto recentemente da Planeta de Agostini in una nuova e prestigiosa edizione. Dell’opera i fratelli Wachowsky nel 2006 realizzarono una versione cinematografica assai criticata, ma che ebbe comunque l’indiscutibile merito di dare diffusione planetaria alle vicenda narrata, una distopia fantapolitica ambientata in una Inghilterra orwelliana dove vige un opprimente regime teocratico e nazista. L’obiettivo di V, l’anarchico protagonista del racconto con il volto perennemente coperto da una maschera di Guy Fawkes, è il rovesciamento del sistema per mezzo di mirate azioni sovversive e dimostrative.
Ora, il tratto deflagrante dell’opera di Moore è che V risulta più simile a un terrorista che a un eroe rivoluzionario: i suoi attacchi al regime, sempre avvolti nell’anonimato, vengono condotti con metodi violenti e sanguinari e prevedono l’omicidio sistematico a sangue freddo di esponenti del governo, nonché veri e propri atti eversivi che includono la distruzione di monumenti-simbolo della città di Londra (l’Old Bailey e il Palazzo di Westminster), con inevitabili perdite tra i civili. Come può un tale personaggio diventare un vessillo sotto il quale condurre battaglie politiche e sociali?
Il fatto è che V non è una semplice maschera dietro cui nascondersi, ma è un’identità collettiva da incarnare, perfetta sintesi dell’individualità più inalienabile e di un senso universale di giustizia: V agisce con visionaria razionalità sempre a titolo personale, per vendetta, ma a un livello più profondo le sue azioni appaiono giustificabili e hanno un effetto virtuoso sull’intera collettività. Indubbiamente sabotaggi, attentati, sequestri sono a tutti gli effetti atti terroristici che implicano la rottura del patto sociale; eppure, in determinati contesti, è necessario ridisegnare le condizioni che definiscono quel patto («Il popolo non dovrebbe temere il proprio governo. I governi dovrebbero temere il popolo»). Il discrimine tra vile gesto estremistico ed eroica impresa rivoluzionaria o patriottica può diventare davvero labile e sul crinale di questa sottile distinzione prendono consistenza guerre, dittature, colpi di stato, rivoluzioni che solo alla storia spetta giudicare. V, nella sua incorruttibile tragicità letteraria non può costituire un modello da seguire, ma assurge direttamente al ruolo simbolico di demiurgo paradossale che, distruggendo, genera simboli. I processi rivoluzionari, le battaglie e le lotte per la liberazione, infatti, da sempre necessitano di simboli e i simboli si creano con azioni eccezionali, spesso estreme e discutibili, che possono diventare potenti detonatori proprio in virtù del loro carattere emblematico: «Il palazzo è un simbolo, come lo è l’atto di distruggerlo. Sono gli uomini che conferiscono potere ai simboli. Da solo un simbolo è privo di significato, ma con un bel numero di persone alle spalle fare saltare un palazzo può cambiare il mondo». In fin dei conti anche la guerra di indipendenza americana fu preparata da una serie di imprese ad opera dei primi patrioti che senza troppo sforzo potremmo definire atti terroristici divenuti simbolo di libertà: lo stesso Boston Tea Party non fu forse un sovversivo atto di sabotaggio orchestrato da un manipolo di individui mascherati che, tuttavia, divenne un simbolo così potente da sancire l’inizio della Rivoluzione Americana? Svuotare di significato le azioni sediziose stigmatizzandole per il solo fatto di opporsi in modo violento o manifestamente illegale al potere costituito è di fatto il modo per mantenere lo status quo: parlare di «terrorismo» in termini astratti significa riferirsi a un contenitore vuoto, spesso riempito ad hoc a scopi propagandistici. La miglior reazione nei confronti di chi rende ideale e simbolico un singolo gesto è quella di infondere vita concreta a un’idea, a un simbolo.
Watchmen
La capacità di rendere reali le idee è dunque l’arma più potente in mano ai governi: la propaganda politica è in grado di muovere eserciti, iniziare e arrestare guerre, indurre la popolazione a sacrifici immensi, diffondere e alimentare il terrore. Alan Moore riflette su questo tema nell’altra opera osannata dalla critica che gli procurò notorietà internazionale: Watchmen, disegnato da Dave Gibbons e pubblicato nel 1986, unico fumetto a vincere il prestigioso Premio Hugo e ad essere inserito dal «Time» nella lista dei 100 romanzi in lingua inglese più influenti del XX secolo. Anche da Watchmen nel 2009 venne tratto un film di successo. L’impianto narrativo dell’opera è così complesso e articolato che in questa sede risulterebbe impossibile riassumerne i tratti essenziali, ma ai nostri scopi è sufficiente delineare l’idea folle e terrificante attorno a cui ruota l’intera vicenda.
Siamo negli anni ’80. La tensione tra USA e URSS ha superato il punto di non ritorno e il mondo si trova sull’orlo di una guerra nucleare. L’unico modo per contrastare il caos politico e diplomatico in cui versano le relazioni internazionali ed evitare l’olocausto atomico sembra essere quello di mettere in atto un progetto folle, una soluzione finale assurda e agghiacciante, un meccanismo preciso e spietatamente razionale nella sua lucida follia: creare artificialmente un terzo polo antagonista, un avversario ancora più temibile, responsabile di un’unica azione terroristica di scala e crudeltà devastanti. Solo una catastrofe apocalittica può imporre alle forze sino a quel momento in conflitto una sospensione delle ostilità allo scopo di fronteggiare la nuova, incombente minaccia. Una colossale, spietata e violenta beffa pacificatrice, capace, però, di salvare miliardi di persone al prezzo di tre milioni di vite. Certo, Watchmen è solo un fumetto, ma la costruzione artificiale di un nemico inesistente allo scopo di giustificare provvedimenti economici e militari straordinari altrimenti inaccettabili non è affatto implausibile: la realizzazione attiva e consapevole di condizioni critiche che trasformino in minaccia universale gli oppositori politici o militari è una prassi propagandistica ampiamente comprovata. L’Operazione Northwoods, ad esempio, piano della CIA risalente agli anni ’60, reso noto nei dettagli dalla pubblicazione dei documenti relativi al progetto ad opera del National Security Archive, prevedeva la simulazione di atti di terrorismo di cui incolpare Cuba al fine di incoraggiare il supporto a una guerra. Tali azioni includevano il sabotaggio di navi americane, l’esplosione di ordigni al plastico nel corso di manifestazioni sportive, l’attacco di basi militari con ingenti danni alle installazioni.
Creare spauracchi collettivi mediante azioni di tipo terroristico è il livello più estremo di un’attività di propaganda politica che tende a promuovere una visione falsata, semplificata e contrastata degli eventi e della storia: le azioni umane trovano una giustificazione nella realizzazione di grandi ideali o nella reazione necessaria a somme ingiustizie, sempre nel nome di valori universali. Il mondo raccontato nei fumetti supereroistici di massa risponde alle stesse regole: buoni e cattivi sono tali per definizione e i loro atti sono sempre coerenti e disinteressati, nel bene o nel male. Non sorprende dunque rilevare che sin dagli anni ’40 del secolo passato il fumetto americano abbia cooperato con la propaganda nazionalista americana diventando uno strumento adatto a favorire la circolazione e il radicamento di valori coerenti con la politica di governo: Superman è l’incarnazione del Sogno Americano e solo in un clima fortemente propagandistico poteva nascere un personaggio come Capitan America. Con Watchmen e V for Vendetta Alan Moore mette in atto una magistrale rivoluzione letteraria, dissezionando la natura, le motivazioni, l’etica e persino l’estetica stessa dei supereroi: i suoi personaggi rappresentano ognuno un aspetto importante della mitologia superoistica, ma le loro azioni non rispondono più all’assiologia manichea tipica della cultura dei fumetti, bensì a motivazioni egoistiche, concrete e contraddittorie: l’esito finale è un mondo dominato dal caos, un brusco risveglio dal Sogno Americano. Può l’uomo ritenersi depositario di un concetto di libertà, benessere e democrazia tanto assoluto da meritare il sacrificio preventivo di decine, centinaia, migliaia, milioni di persone per essere salvaguardato? È plausibile che la corsa al perfezionamento del «migliore dei mondi possibili» (parossismo di un paradosso) porti all’attuazione di piani di felicità aprioristica, costi quel che costi? Chi controlla i controllori? (Qui custodiet custodes?).
Un miracolo di osservazione critica
A valori come Libertà, Giustizia, Dio e Patria, difesi e incarnati da eroi sempre perfettamente coerenti come Superman e Capitan America, Moore contrappone la violenza gratuita del Comico, le mediocrità patetiche di Night Owl, la follia schizofrenica di Rorschach, il cinismo criminale di Ozymandias, le nevrosi di Silk Spectre e l’inconciliabile alterità del Dr. Manhattan. E che dire di V, in fin dei conti una sorta di Fantasma dell’Opera paranoico, cinico e inquietante, che giunge a torturare fisicamente e psicologicamente persino la donna che ama? L’«Umano, troppo umano» sostituisce l’Über-mensch in calzamaglia. Il risultato è un miracolo di osservazione critica: la capacità di Moore di cogliere lo Zeitgeist con questi due romanzi a fumetti è impressionante, e la loro attualità anche a più di vent’anni dalla loro prima pubblicazione è davvero sorprendente.