Un trombone impossibile
di Siro Ferrone
dagli archivi: 1987 – anno IV – n. 8
Dario Fo si lamenta (pp. 171-173 del suo Manuale minimo) perché in Italia è considerato un grande attore ma non un commediografo, mentre all’estero invece sì. Dario Fo ha ragione ma non si spiega perché. Del resto ancora oggi si continua a ignorare che gli attori seicenteschi Pier Maria Cecchini, Giovan Battista Andreini e Nicolò Barbieri furono scrittori di teatro nettamente superiori a tutti i letterati commediografi del loro secolo. Ma il fraintendimento di Fo non è solo colpa dei conservatori. Appena qualche anno fa (1980) Carmelo Bene celebrava un compleanno di Eduardo precisando che costui era un grande attore nonostante i suoi copioni. Posizione condivisa da quasi tutta la neoavanguardia, impegnata a dar colorito progressista a idee vecchiotte: come quella che avvertiva che l’attore non aveva bisogno di scrivere per diventare autore, essendo già autore per il solo fatto di recitare, anzi di esistere. Di qui il ridimensionamento dei copioni di Eduardo e di Fo rispetto al loro recitare; nello stesso modo nel Seicento i letterati si liberarono della pericolosa concorrenza di scaltriti e agili scrittori classificandoli come attori e facendoli ammirare come creatori di un’arte improvvisa che poteva benissimo fare a meno della parola.
Classificare Dario Fo come il nostro più grande mimo dopo Totò o come compagno militante della sinistra rivoluzionaria è tornato utile a tutti. Semplificava le cose a destra e a sinistra, con l’aiuto del diretto interessato, impegnato a volte con una certa qual trombonesca sentenziosità a spiegare i frammenti della lotta di classe più con il tono di Carducci che di Pasolini. In realtà Dario Fo è un trombone impossibile. Fa della pedagoga e poi, istintivamente, la nega; ci ride sopra. Dario Fo è infatti maleducato. Il che è normale per un attore italiano di formazione “bassa”, ma non per uno scrittore di teatro. È uno screanzato che ignora le regole del galateo drammaturgico, le spiazza, le confonde. Il corpo della commedia è per lui come il corpo dell’attore. Si sganghera e contorce in maniera incomprensibile per un normale cittadino in borghese. Così la trama, l’azione, il dialogato, i destini dei personaggi (dalle Farse alle ultime opere) deludono sempre le aspettative, si accoppiano in maniera incongrua, insensata. Un’insensatezza per cui occorre il genio. Ed era inevitabile che fosse così, perché i testi di Fo sono sempre inseparabili dall’artigianato teatrale. I testi fossili di molti autori cosiddetti viventi sono “preventivi” (nel senso che si sforzano ragionieristicamente di prevenire, e quindi di intimidire ogni azione teatrale); quelli di Fo, come di Eduardo, come di Viviani, sono invece consuntivi, nel senso che ricapitolano le memorie e il training di un tecnico (l’attore), e nello stesso tempo contengono un alone di visionaria aspettativa per quello che potrà essere il domani di quella tecnica, covando, lì sulla carta, gli scatti fulminei che si potranno fare sulla scena. In questo senso i testi di Fo sono il regno della libertà e del possibile. Imprevedibili come una partita di calcio non truccata. E anche i prevedibili schemi sociologico-didattici da cui partono spesso i suoi ultimi copioni finiscono per essere non conseguenti, gli apologhi diventano sproloqui deliranti, la catechesi si trasforma in paralogismo. La pedagogia precipita nel suo contrario. Il trionfo comico di Fo è il conflitto vitale fra un’ordinata pedagogia e il suo sghignazzante rovesciamento. In definitiva, lo svelamento comico della propria, e generale, patologia.