Nel segno di un’obliterazione
recensione di Stefano Zangrando
dal numero di ottobre 2016
Giacomo Sartori
SONO DIO
pp. 224, € 17
NN, Milano 2016
Nel corso degli anni Giacomo Sartori ci aveva abituato ad almeno due cose: al continuo passaggio da un editore all’altro senza mai approdare a un progetto editoriale capace di accoglierne la razza in una scuderia durevole, e ad alternare registro drammatico e comico in opere narrative diverse per movente e ispirazione, ma per lo più costanti nel valore. Sul secondo versante l’esperimento degli Autismi, una serie di prose comiche a matrice autobiografica prima apparse in gran parte su «Nazione indiana» e poi uscite per gli estemporanei tipi di Sottovoce nel 2010, riversava per la prima volta in un lavoro organico l’humour che già si respirava qua e là nel suo quadripartito volume d’esordio Di solito mi telefona il giorno prima (Il Saggiatore, 1996), nell’introvabile racconto Diluvio (Nicolodi, 2000) o in maniera già più bizzarra in Zoo a due (Perdisa, 2013), dove gli autoritratti di vari organismi animali si alternavano a due narrazioni più estese del valente collega Marino Magliani. In tutti questi titoli, tuttavia, il senso ludico e la verve immaginativa rimanevano consegnati a una misura più o meno breve che sembrava davvero, quasi assecondando le inclinazioni di un pubblico cronicamente refrattario all’arte del racconto, voler stare nell’ombra rispetto alla dirompenza di visione, viscerale e a volte tragica dei romanzi. Il più recente fra questi, Rogo (CartaCanta, 2015), raccontava – con l’empatia per il femminile di cui Sartori è dotato – di tre donne infanticide, vittime in diversi tempi storici degli abissi incompresi della propria natura, esasperando il registro drammatico fino a una violenza dai tratti persino orrorifici.
Non solo brio linguistico
Si può dunque salutare come gradita novità non solo il fatto che la nuova fatica dello scrittore trentino sia un romanzo comico, che innesta cioè l’esprit del Sartori umorista nella ramificazione complessa della forma lunga, ma anche che ad averlo pubblicato sia la giovane NN di Milano, il cui progetto editoriale sembrerebbe affrontare di petto e in modo congiunto, fra le strettoie di un mercato strafatto, le questioni bistrattate della qualità e della durata. Un’altra buona notizia è che questo romanzo potrebbe finalmente incontrare il gusto di chi finora, dallo scranno della critica più autorevole, dichiarava di soffrire nelle pagine di Sartori una certa povertà di stile, prendendo per sciatteria un lavoro di sottrazione, non scevro di slittamenti regionali, che privilegiava la visione e la forma compositiva alle finezze lessicali o prosodiche. Personalmente, tuttavia, non credo che il nuovo brio linguistico di Sartori faccia da solo la bontà del libro. Ancora una volta infatti, e più che mai sul versante comico della produzione sartoriana, è l’idea di fondo, il soggetto, a schiudere fin da subito le potenzialità maggiori.
Sono Dio, questo il titolo, è la storia, narrata da Dio in persona – a dispetto di tutto (ma proprio tutto) ciò che il cosmo può offrirgli – del proprio interessamento e della progressiva infatuazione per un essere umano: una ragazza, una post-punk atea dalle treccine viola e dal fisico imperfetto che di mestiere insemina artificialmente le vacche di montagna e fa ricerca in un laboratorio di microbiologia genetica, mentre nel tempo libero ruba crocefissi da bruciare nel caminetto dell’ex-pescheria dove vive. Sembra un mero gioco di collisioni, ma ci si accorge presto che la deflagrazione è più tematica che narrativa. Il racconto procede per capitoli alterni, tra lo sviluppo di un plot via via più accattivante – che conduce Dio a confrontarsi con i capricci delle emozioni umane e la protagonista lungo il greppo di un imminente fallimento esistenziale – e pagine riflessive in cui il sommo narratore manifesta un’attitudine introspettiva e autoanalitica che è una cifra costante delle voci di Sartori. Se la cura della trama permette all’autore di impastare con la consueta sensibilità la vicenda biografica di un personaggio femminile in un milieu esemplare di ipocrisia cattolica, ecologismo new age, testosteronico opportunismo, pedofilia clericale e post-sessantottismo, il binario riflessivo si presta a rifrangere le più varie implicazioni legate a un Dio che narra: quelle dell’onniscienza, ad esempio, per cui Sartori può ironizzare uno strumento ancora oggi inspiegabilmente utilizzato in letteratura a dispetto del disincanto epistemico che da un secolo e più ne ha invalidato la ragion d’essere. Quel che è chiaro fin dalle prime righe, tuttavia, è che si tratta soprattutto di una questione linguistica: come può un Dio esprimersi, anzi scrivere quel che egli stesso definisce un «diario», utilizzando un mezzo umano per definizione, limitato, affatto inadeguato a restituire la totalità assoluta?
Sono Dio e sono perfetto
Di virtù autoriale occorre dunque far necessità, attingendo a figure e sonorità adeguate, come nell’incipit: «Sono Dio. Lo sono sempre stato, lo sarò sempre. Un sempre però con riflessi affilati di diamante, e senza corrispettivi nelle lingue degli umani». Ma il gioco prende presto il sopravvento anche qui, ora con inserti metalinguistici: «Sono Dio, e sono perfetto (niente quindi di più falso della locuzione nessuno è perfetto)», ora con ammiccamenti intertestuali: «Del resto anche sproloquiare di immagine e somiglianza…», ora con paradossi e divertiti a parte: «Quando ho un po’ di tempo (ci siamo capiti), quello che mi piace di più è bighellonare (che verbo buffo: voi bighellonaste… che essi bighellonassero…)». Sotto questo aspetto, tuttavia, le pagine più riuscite sono quelle dove la descrizione dell’universo e dei suoi fenomeni raggiunge un’inedita e sublime vividezza, pendant cosmico di quella in cui riescono i brani più prosaici, dedicati all’erotismo della protagonista: è allora che si pone sopra ogni altra la questione dell’efficacia estetica, anche a costo di sfiorare l’inverosimile: «Lei prende possesso di quelle sue labbra dure e viola dal vago gusto di alloro (forse anche di incenso e di spazi siderali) come una assetata, ma anche lui sembra apprezzare il sapore di vaniglia, con una punta di rame leggermente ossidato, della sua lingua».
Non è forse un caso, infine, che il romanzo in cui convergono e si fondono le varie anime di Sartori – nemmeno questo è scevro di una drammaticità che, al suo culmine, costringe persino Dio a smettere per un momento di scherzare – nasca da una riflessione sulla spiritualità e i suoi stenti odierni, sull’obliterazione del divino, la persuasività del neo-positivismo e il fiato corto delle religiosità derivate: da ultimo, ma lo annunciavano già le citazioni in esergo, Sono Dio è un confronto serrato e ilare con le questioni fondamentali. Alla lettura, tuttavia, queste fanno capolino per baluginii, diluite come sono nel flusso romanzesco, calate nell’hegeliana prosa del mondo, per cui è ai personaggi – alla spilungona Dafne, alla piccoletta Afra o allo stesso signore di tutte le cose –, alle loro imperfezioni e ai loro patimenti che dobbiamo l’impressione, pagina dopo pagina, di esser coinvolti in una storia che ci riguarda a fondo, molto seria a dispetto del faceto che la anima.
stezangrando@gmail.com
S Zangrando è insegnante e traduttore