Alla ricerca di un miracolo
recensione di Maria Candida Ghidini
dal numero di ottobre 2016
Lev Tolstoj
ANNA KARENINA
ed. orig. 1877, trad. dal russo di Claudia Zonghetti
pp. 963, € 28
Einaudi, Torino 2016
E così è uscita una nuova traduzione di Anna Karenina. Einaudi con Claudia Zonghetti corona una storia ricca e lunga, quella dell’Anna tolstojana apparsa in Italia, con esiti diversi, già dalla fine dell’Ottocento e nel 2010, anno del centenario della morte di Tolstoj, premiata addirittura contemporaneamente in due versioni diverse, di Annelisa Alleva (Frassinelli e poi Mondadori) e di Laura Salmon (La biblioteca di Repubblica). Nel panorama non sempre confortante delle traduzioni dei classici questo, dunque, è un caso fortunato: un grande romanzo che ha attratto grandi traduttori, fin dal 1929 con la versione, diventata quasi canonica, di Leone Ginzburg. Perché, allora, continuare a tradurre? È vero, la lingua cambia e ogni tanto bisogna dare una rinfrescata all’italiano dei classici come alle pareti di casa. Nel caso di questo romanzo, tuttavia, c’è qualcosa di più, qualcosa che chiama a un ostinato esercizio di acribia traduttiva, a un pervicace lavorio di avvicinamento, a una conquista raggiunta per approssimazione.
Il motivo è che Anna Karenina è un romanzo complesso che si nasconde sotto una parvenza semplice. È la semplicità che spiazza. Esso imita il caos e la casuale prosaicità della vita, ma in realtà è il risultato di una struttura accuratamente meditata. Ecco come ne parla Tolstoj: «Le volte sono state erette in modo che non si veda dove sia la congiuntura (…). L’unità della struttura è creata non dall’azione e non dai rapporti tra i personaggi, ma da una continuità interiore».
Insofferente alle interpretazioni
Tolstoj era insofferente ai discorsi sul suo romanzo e alle interpretazioni della critica, benché fosse particolarmente preoccupato di come sarebbe stato recepito. Si era, infatti, subito reso conto che un romanzo tanto famoso e tanto letto (tanto tradotto, aggiungiamo ora) sarebbe arrivato ai lettori con tutta una serie di filtri e questo lo preoccupava.
In primo luogo, gli davano fastidio le teorizzazioni: «Se volessi dire con un discorso tutto quello che intendevo esprimere con il mio romanzo, dovrei riscrivere da capo lo stesso romanzo che ho scritto». Le disquisizioni teoriche gli parevano non centrare il bersaglio, non cogliere il significato ultimo della sua opera: il nucleo profondo, inesprimibile e indiretto, di ciò che tanto chiaramente egli aveva espresso in un’architettonica mirabile di storie e destini intrecciati.
Cercava di spiegarlo all’amico Strachov: «In tutto, quasi in tutto, quello che ho scritto sono stato guidato dall’esigenza di raccogliere dei pensieri, correlati tra loro, al fine di esprimere me stesso, ma ogni singolo pensiero, se lo si esprime separatamente con dei discorsi, perde il suo significato, si degrada terribilmente quando viene preso da solo fuori dall’insieme di nessi in cui esso si trova. Questo stesso insieme di nessi è costituito non dal pensiero (mi pare), ma da qualcos’altro ed è assolutamente impossibile esprimere direttamente in parole il fondamento di questi nessi; lo si può fare solo in modo mediato con parole che descrivano immagini, azioni, situazioni».
E così, per la sua Anna, Tolstoj cercava un «filtro» speciale, persone che avrebbero potuto «mostrare quanto sia assurdo cercare dei pensieri in un’opera d’arte e che guidino incessantemente i lettori nell’infinito labirinto di nessi che costituisce l’essenza dell’arte, verso le leggi che sono il fondamento di tali nessi».
La sfida di Claudia Zonghetti
Claudia Zonghetti ha accolto la sfida, facendosi filtro e guida. Ha tradotto non semplicemente una storia d’amore (anzi due e più) o le grandi questioni della vita e della morte (ricordiamoci che l’unico capitolo ad avere un titolo nel romanzo è il ventesimo della quinta parte, La morte). Ha tradotto un compatto flusso narrativo. Si è immersa nel labirinto e ne ha proposta la sua, personale versione, rendendone l’insieme di nessi, auscultando il profondo pulsare delle sue leggi, per poi rendercelo in un italiano saporito, stratificato ed elegante. Mai come prima di allora Tolstoj era stato preoccupato del suo russo, della lingua e dell’architettura (le volte che si uniscono armoniose). E il motivo c’è: Anna Karenina si era fatta strada tra altri, diversissimi progetti, su suggestione della prosa puškiniana, che Tolstoj aveva riletto in quel periodo, per caso. Giusto, quindi, che la traduzione condivida la medesima cura, modellando una lingua fresca che pur mantiene la dignità del classico e varia, alla ricerca dei diversi registri usati dall’autore. Questa traduzione si presta particolarmente alla duttilità del suo stile (dal chiacchiericcio salottiero alle ciance nei campi), alla volubilità dei personaggi (le diverse ipostasi di Anna o la tormentata maturazione di Kitty), alla varietà degli argomenti trattati (dai passi di danza al burocratico problema degli allogeni o alle disquisizioni darwiniane che tanto appassionavano all’epoca). Traduce un insieme di nessi ed è per questo che la parte più riuscita è la difficilissima resa della sintassi tolstojana, sia quella stringata dei dialoghi (bellissimi in russo e ora in italiano), sia il periodare disteso, a tratti imponente, che a volte Zonghetti si prende la responsabilità di piegare alla diversa logica dell’italiano, scombinando l’ordine russo, ma solo per ridarci il naturale equivalente nella nostra lingua.
Immergersi nel labirinto e andare alla ricerca delle «immagini, azioni, situazioni», come diceva Tolstoj, serve non a estrarre concetti e discorsi dal romanzo, ma a guardarvi dentro un po’ più in profondità e a far germogliare suggestioni contagiose, «contagiose» come lo scrittore voleva che l’arte fosse.
È una sfida perché Anna Karenina di fronte alla densità provocatoria e alla problematicità filosofica dei romanzi dostoevskijani, ad esempio, appare a un primo sguardo un semplice romanzo d’amore. L’unica via, allora, è quella di abbandonarsi alla lettura (e Zonghetti questo fa, lavorando d’orecchio, oltre che d’occhio), concentrandosi sui dettagli e sulle minuzie, piuttosto che sui grandi discorsi: seguire il percorso tolstojano, dal basso verso l’alto. «E io ero alla ricerca di miracoli, mi lamentavo di non vedere un miracolo che mi poteva convincere. E invece eccolo qui, il miracolo, l’unico miracolo possibile, che c’è da sempre, che mi circonda da tutte le parti e non me n’ero mai accorto!». Così dice della sua vita Levin, colui che generalmente viene considerato l’alter ego di Tolstoj. La verità è sotto il naso ed è intessuta nella trama più quotidiana. Le più alte verità scoperte dagli eroi tolstojani dimorano nel mondo prosaico della vita di tutti i giorni dove si mimetizzano, sono nascoste in primo piano.
Ascesi semantica
In questo senso Tolstoj, così attento e minuzioso nelle descrizioni, non è mai solo descrittivo, perché i quadri da lui evocati hanno sempre un leggero, coglibile (ma non cogente) potenziale metaforico, spesso accompagnato da una certa laconicità dello stile, dalla paratassi. Rispetto a Guerra e pace (e ai suoi citatissimi simboli, come la quercia o il cielo del principe Andrej), infatti, in Anna Karenina, Tolstoj sembra fare un ulteriore esercizio di ascesi semantica, è ancora più implicito e dissemina i suoi simboli nel tessuto quotidiano, come indizi leggeri che lasciano ancora più spazio al lettore, creano un appello a chi recepisce.
Ad esempio, la bufera di neve durante il viaggio di ritorno di Anna da cui emerge Vronskij, oscurando «la luce già tremula del lampione» adombra la bufera della loro accecante passione, ma Tolstoj non esplicita la suggestione, si limita invece a raccontare una bufera molto concreta, senza concedere nulla all’immaginario romantico (eppure, aveva a disposizione un repertorio letterario ricchissimo, già sbeffeggiato da Puškin).
Gli elementi reali, dunque, si accumulano e pazientemente si caricano di potenziale metaforico, anche mescolandosi con elementi onirici di cui Tolstoj fa abbondantemente uso (le caraffine sinuose, il mužičok-staričok con la barba che Zonghetti scioglie in un più scorrevole «vecchio barbuto», la candela, il battere del metallo sul ferro). E così questo tanto decantato realismo tolstojano a tratti straborda in un inquietante iperrealismo (non sono solo le ruote del treno che ipnotizzano Anna, ma le loro bielle, viti, catene, la ghiaia mista al carbone delle rotaie) che impone alla traduzione un’altrettanta precisione e ricchezza, da catalogo lessicografico.
Niente, tuttavia, è fine a se stesso: tutto ciò assume senso grazie all’inserimento in un tutto. Il dettaglio si accende di significato perché è dentro una struttura, perché è incastrato tra i due treni che aprono e chiudono il romanzo, perché è continuamente palleggiato in coppie di opposizioni che si rincorrono all’infinito: città e campagna, treno e carrozza, equini e bovini, Russia ed Europa, parola e silenzio, logica e intuizione, individuo e famiglia, gioco e lavoro, modernità e società patriarcale, amore carnale e amore spirituale e così via fino all’opposizione delle opposizioni, quella della morte e della vita. Questi contrasti, scontrandosi, esplodono scintille di pensiero simbolico. È questo che illumina e anima la realtà più materiale e concreta.
Una lingua flessibile
L’avere a che fare con «l’infinito labirinto di nessi che costituisce l’essenza dell’arte» e le leggi a «fondamento di tali nessi» comporta affrontare la controversa questione delle ripetizioni, che Tolstoj indubbiamente usa non solo per cementare la sua delicata struttura, ma anche per innescare il processo metaforico, perché una parola ripetuta estende il proprio significato, aguzza le nostre antenne e finisce per dire più di se stessa. Tuttavia, il russo tollera un più alto tasso di ripetitività rispetto all’italiano, anche in virtù della propria natura di lingua flessa, ove le parole possono ricorrere in forme diverse. Mantenere pedissequamente tutte le ripetizioni significherebbe non distinguere l’intenzione autorale (da riprodurre il più precisamente possibile) dalle caratteristiche sistemiche della lingua (che non vanno tradotte). Zonghetti non fa una guerra spietata alla ripetizioni, come è stato scritto. Valuta caso per caso, operando una scelta su dove accoglierle e dove eliminarle.
È un rischio che si è presa ogni volta e ciò va giudicato nell’insieme dell’eccellente risultato, perché a scendere nei particolari, nelle oltre novecento pagine del libro, ognuno potrà trovare una ripetizione, un nesso che avrebbe assolutamente conservato. Io, ad esempio, avrei mantenuto l’insistenza sull’intrico delle parole telo (corpo), užas (orrore), žalost’ (pietà) che ricorrono a proposito dell’atto d’amore tra Anna e Vronskij e nell’episodio della morte del fratello di Levin. La corporeità è un motivo fondamentale, legato all’amore e alla morte, che nel romanzo si specchiano l’un con l’altra. Il corpo di Anna anticipa quello morto del fratello Nikolaj e qui sta uno dei nessi segreti che costituiscono l’unità strutturale del romanzo, perché il parallelismo tra i due protagonisti, Anna e Levin, che Henry James giudicava non riuscito (avrà senz’altro letto una brutta traduzione), ha la sua ragione più profonda proprio qui, nella mancanza di senso della vita e nella pulsione di morte che si confronta con la «vita viva».
mariacandida.ghidini@unipr.it
M C Ghidini insegna letteratura russa all’Università di Parma
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