Oswaldo Reynoso – Niente miracoli a ottobre

La foschia grava su Lima

recensione di Mario Marchetti

dal numero di settembre 2016

Oswaldo Reynoso
NIENTE MIRACOLI A OTTOBRE
ed. orig. 1965, trad. dallo spagnolo di Federica Niola
pp. 279, € 16
Sur, Roma 2015

Oswaldo ReynosoStraordinario, fiammeggiante romanzo, uscito in Perù nel 1965, finalmente approdato in traduzione italiana, grazie al meritorio impegno dell’editrice Sur specializzata in narrativa sudamericana. Sur privilegia il cono sud, l’America Latina cosiddetta “bianca”, e non ama il filone indigenista né quello del realismo magico. Vuole scoprire vene meno note. Della ricca narrativa peruviana (ricordiamo almeno Alegría, Arguedas, Scorza, Vargas Llosa), ha finora pubblicato due titoli: Tungsteno, unico romanzo, risalente al 1931, del poeta César Vallejo sullo sfruttamento dei cholos e, appunto, En octubre no hay milagros. E se nel primo si può trovare ancora qualche traccia di indigenismo, tendenza che ha avuto comunque il grande merito di far conoscere la cultura delle offese popolazioni andine, con il secondo si entra decisamente nella modernità. In tutti i sensi. Lo scenario è quello di Lima, negli anni sessanta in cui si svolge l’azione – concentrata tutta nell’arco di una sola giornata − ormai una grande metropoli, anche se ben lungi dall’ipertrofia odierna. Anzi si può dire che Lima, con i suoi abitanti appartenenti a tutti gli strati sociali, è la vera e assoluta protagonista del romanzo.
La conosciamo soprattutto attraverso la peregrinazione di Don Lucho per le sue strade alla ricerca di un’abitazione che vorrebbe – vanamente − “decorosa” dopo l’ingiusto sfratto subito. I movimenti dei membri della sua modesta famiglia si intersecano con quelli del “bianco” Don Miguel, discendente di conquistadores − padrone occulto della città e, in realtà, di tutto il paese, nelle cui doviziose residenze coloniali si fanno e si disfanno i governi –, e del suo giovane e ribelle oggetto sessuale, Tito, un figlio del popolo dalla pelle scura e brunita. Ma tanti altri attori si muovono nel diorama di Lima, come gli studenti della Gran Unidad Escolar (e qui non si può non pensare alla Città e i cani di Vargas Llosa), i potenti sodali di don Miguel, le prostitute dei corralones, la moltitudine che invade le strade per la processione in onore del Señor de los Milagros. Reynoso rivela un’impareggiabile maestria nel tenere sotto controllo e nel caratterizzare la sua legione di personaggi: la ricorrente immagine del corpulento e calvo Don Miguel che si muove “ancheggiando disinvolto, le incontenibili mani svolazzanti come farfalle al vento, spedito, femmina” (uomo, in realtà, di protervo potere) si incide indelebilmente nella memoria. Ma soprattutto moderni sono la costruzione del romanzo, la lingua e lo stile.

La costruzione, un’architettura segmentata, è fatta di brevi capitoli, nei quali improvvisi cortocircuiti spazio-temporali ci conducono da un luogo all’altro della città, da un personaggio all’altro, o ci fanno tuffare nel passato grazie ad improvvise emersioni di ricordi o del vissuto rimosso, e tutto questo senza particolari indicazioni orientatrici, se non il carattere tipografico o la grana delle voci. E anche, rompendo gli schemi, in un’occasione epifanica l’autore non si perita di rivolgersi direttamente al lettore, facendo erompere per un attimo la sua ideologia di “marxista rabbioso” (l’ormai ottantacinquenne Reynoso è vissuto tra l’altro in Cina, alla ricerca di una immaginata felicità, tra gli anni settanta e ottanta, per impattare infine con Tienanmen, esperienza che gli ha ispirato il singolare Los eunucos inmortales): “Come è successo a Don Lucho anche a te domani potrebbero mettere i mobili per strada”. Ma è solo un attimo.
Anche lo stile, come la costruzione, è spezzettato, rapido, ellittico. Il lessico vira dal gergale limeño al lirico. L’uso delle parole di strada aveva già scioccato il prude ambiente letterario peruviano all’uscita del primo libro di Reynoso, nel 1961, Los inocentes, una raccolta di racconti urbani che dovrebbe apparire presto da Sur. La lingua è fatta di avvolgenti odori, colori e sensazioni tattili. Ci sentiamo immersi in un’amniotica, soffocante atmosfera di sudore, effluvi sessuali, lezzo di fradiciume sotto un cielo perennemente grigio e brumoso: è la celebre garúa, la foschia densa e piovigginosa di una Lima climaticamente infelice.

Ecco il folgorante inizio del romanzo: “Viola (morado). Acido viola sopra un cielo di cenere. Sporca la nebbia marcia di pesce. Viola dolce come un tappeto. Viola torbido e ondeggiante di corpi scuri (morenos). Viola tiepido di una mattinata fredda: bagnata”. Il moreno è il colore dell’attrazione sessuale, come il morado è il colore che nel giorno della processione del Señor de los Milagros domina la città, è il colore sotto il quale per un giorno si mascherano le differenze di classe. Moreno e morado ritornano ossessivamente lungo tutta la narrazione. Sotto la tunica viola delle confraternite, per un giorno tutto sembra essere possibile, come sempre nelle esplosioni carnascialesche. Tutti cercano il proprio piacere o un po’ di denaro, c’è chi aspira a ribellarsi, c’è chi cerca semplicemente casa. Tutti falliranno e ogni cosa resterà come prima, per qualcuno peggio di prima. Le strutture di potere si rivelano inossidabili: non ci sono miracoli a ottobre.

m.ugomarchetti@gmail.com

M Marchetti è traduttore

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