Per dare una forma al mondo
Il numero di Luglio/Agosto della rivista non si concede il lusso di una vacanza spensierata e continua a puntare uno sguardo preoccupato sul mondo. Nella foresta fittissima dei Segnali troviamo una riflessione sul volume appena pubblicato da Codice che raccoglie alcuni articoli di Evgeny Morozov apparsi sulla stampa internazionale nel 2013 e nel 2014, e s’intitola Silicon Valley: i signori del silicio: “La tesi principale è che la ‘rivoluzione digitale’ non faccia altro che portare all’estremo lo spirito e le logiche del capitalismo, proponendo un’ideologia neoliberista che è incarnata alla perfezione dalle aziende americane della Silicon Valley quali Google, Facebook, Amazon, Apple e molte altre (…). In sostanza, scrive Morozov, ‘Facebook fornisce la connessione a quei paesi in cambio del diritto di monetizzare le vite dei loro cittadini una volta che guadagneranno abbastanza soldi’”. Come fa notare Gabriele Balbi, autore del Segnale, si tratta di “una forma di mercificazione del sé, perché siamo disposti a cedere dati sensibili in cambio di servizi più efficienti, economici e tagliati sui nostri desideri. Il libro di Morozov ci invita insomma a fare un passo indietro: la costante connessione, la condivisione del nostro privato (e dei nostri dati), le offerte che ‘non possiamo rifiutare’ non fanno altro che arricchire le aziende della Silicon Valley e perpetrare la loro logica di sfruttamento. Altro che intelligenza collettiva, altro che potenziamento della socialità”.
Una riflessione che si salda efficacemente con quella condotta da Federico Paolini, che sta producendo una serie di interventi sull’ambiente riferiti a libri recentemente pubblicati e che punta il dito contro la mancanza di controllo delle fonti nel nostro sistema di comunicazione: “Per diffondere una consapevolezza realmente informata circa i molteplici aspetti che compongono la questione ambientale, appare sempre più necessario depurare il dibattito sia dalle narrazioni ideologiche e strumentali, sia da quelle teleologiche. Nel quadro odierno – caratterizzato dalla progressiva affermazione dell’ambientalismo radicale e dalla moltiplicazione, favorita dalle nuove forme di comunicazione (social network), di apprendisti stregoni che diffondono informazione a-scientifica o, peggio, anti-scientifica – il raggiungimento di questo obiettivo non risulta agevole”.
Sapere raccontare un fenomeno o mostrarne alcuni aspetti può cambiare la valutazione dei dati di realtà? Sembra di poter rispondere positivamente se si guarda alla tesi economica di Harry G. Frankfurt, posta al centro dell’analisi di Adelino Zanini, sempre nella sezione dei Segnali,: “La tesi di Frankfurt è netta e ruota attorno al principio secondo cui, per quanto indesiderabile possa sembrare la disuguaglianza economica, non vi è ragione per considerarla moralmente deprecabile. Deprecabili possono essere le diseguaglianze di altro genere ad essa conseguenti e tali da richiedere ‘appositi monitoraggi legislativi, normativi, giudiziari e amministrativi’. Ciò non può tuttavia porre in discussione l’intrinseca innocenza della disuguaglianza economica e, dunque, non può condurre a ‘propugnare l’egualitarismo economico come autentico ideale morale’. Il problema non è la disuguaglianza, bensì la povertà, il non avere ‘abbastanza’ da parte di molti (ove l’avverbio indica uno standard, più che un limite da raggiungere). L’obiettivo di fondo dovrebbe certamente essere quello di ridurre sia la povertà sia l’eccessiva ricchezza, anche per contenere gli effetti potenzialmente antidemocratici che di normale accompagnano. Questo può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé tale riduzione non può costituire la nostra ambizione primaria. L’uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario (…) Dopo tutto – afferma l’autore – la disuguaglianza è una caratteristica puramente formale, e una caratteristica formale, relativa al rapporto fra due elementi, non può implicare niente riguardo alla desiderabilità o al valore di uno di essi, o alla relazione che sussiste fra i due. Ciò regge, però, sino a che si trascurino tutti i problemi connessi alla misurabilità dei criteri di soddisfazione, ai confronti interpersonali di utilità, etc. E, soprattutto, ciò regge sino a che si ragioni in termini di singoli individui”. “L’Indice” di luglio-agosto mette quindi in guardia, in filigrana, sulla seduzione delle narrazioni, sia di quelle affidate all’incessante storytelling mediatico sia di quelle che costruiscono teorie senza tenere conto dell’impatto che esse hanno sulla vita delle persone. Dietro i numeri e le teorie ci sono sempre individui e vite. Allora forse la cosa migliore è distinguere bene lo spazio della narrazione da quello della teoria.
E la rivista non si sottrae a questo compito, perché anche in questo numero dà molto spazio al racconto della “letteratura”. Si descrive l’umorismo spiazzante di Alan Bennett e si recensiscono libri di Irena Brežná, Chigozie Obioma, Edna O’Brien, Nathalie Sarraute, Peter Matthiessen, Tiziano Scarpa e Antonio Pascale. Ma il miglior omaggio alla letteratura è quello di Michael Cunningham che nel libro Un cigno selvatico ci trasporta in un mondo fiabesco in grado di dare (in un movimento virtuoso e non vizioso dal fantastico alla realtà) un forte insegnamento per la vita: “Molte fiabe parlano di persone comuni, ma che difficilmente accettano in modo tranquillo il loro destino: quelle che non si ribellano non entrano nelle storie, di nessun tipo, perché sono passive. Nel racconto di Jack e l’albero di fagioli un ragazzino vende la mucca di sua madre per una manciata di fagioli, con la speranza che la magia cambierà le loro vite. Mentre nella fiaba del Nano Tremotino un mugnaio cerca di far sposare la propria figlia al re, raccontando che la ragazza sa mutare la paglia in oro. Se Jack e il mugnaio avessero quietamente accettato la loro sorte, non ci sarebbero state le loro storie. No, i racconti riguardano persone che cercano di cambiare il loro destino”.
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