Istinto, rigore e partecipazione
di Gabriele Di Fronzo
Quel che c’è da sapere a proposito del lettore editoriale è che questi fa in casa editrice quello che nelle aziende agricole fanno i sessatori di pulcini. I migliori nel campo sono i giapponesi e in un tempo inferiore ai quattro secondi sono capaci di riconoscere il sesso del pulcino che hanno nel palmo della mano: e se femmina, metterlo da una parte, alla volta dell’allevamento per la produzione delle uova, e se maschio, dirottarlo altrove. Il guaio è che è molto difficile distinguere i maschi dalle femmine finché questi non compiano quattro settimane. Troppo tardi per i tempi della zootecnia, c’è quindi bisogno che qualcuno sappia dirimere la questione ben prima. I sessatori più abili intervengono sin dai primi istanti di vita dei pulcini perché hanno il talento di riconoscere una cosa che c’è già quando ancora per tutti gli altri quella cosa manca. È istinto del mestierante, è prodezza dell’intuito. Nel caso del lettore editoriale si aggiunga anche che è immolare le proprie poche diottrie superstiti a beneficio delle molte promesse altrui.
Ai lettori editoriali, “quella abominevole sottocasta” come è definita nel racconto di Roberto Bolaño Henri Simon Leprince, spetta la stessa incombenza di quello che briga tra i minuscoli genitali dei pulcini. Il suo piccolo ruolo nella filiera consta nel separare i romanzi che a centinaia, se non a migliaia, pervengono in casa editrice. È suo, insomma, il compito di passare per primo la pupilla e le mani sui dattiloscritti che si auspicano di diventare libri. E c’è la lavagna in cui si segnano i buoni e c’è la lavagna in cui si fa la lista, tristemente è sempre più lunga questa, dei cattivi. Romanzi brevissimi, raccolte di racconti, romanzi lunghissimi. A decine e decine ogni mese. Senza requie o cali d’attenzione, pazienza e palpebra all’insù, guai a finire nell’ombra della noia. Il mestiere da banco che esige la maggior dose di adrenalina è questo, pena la sonnolenza. Ecco perché poi il lettore editoriale in libreria cerca riparo nel reparto della saggistica o si rifugia nei fumetti. Anche perché altrimenti, passeggiasse tra le ultime uscite della narrativa, vi troverebbe un gran bel numero di romanzi che lui aveva valutato scarsi, debolissimi in ogni aspetto, impubblicabili anche dopo secoli di editing, adesso invece tutti pubblicati, copertinati e fascettati con strilli inneggianti al capolavoro. Si badi subito, prima che sia troppo tardi, che della fallibilità del lettore editoriale non vale neanche la pena di parlarne: non esiste.
L’ambidestrismo del lettore editoriale
Una studentessa che nel 1965 ebbe il privilegio di avere come insegnante del corso di Teoria e forma della fiction Kurt Vonnegut, ha conservato il compito che questi le aveva assegnato per le esercitazioni. È scritto in forma di lettera perché mai Vonnegut si sarebbe lesinato ad apparire un sentimentale con chiunque. “Vorrei che le tue tesine fossero ciniche e religiose allo stesso tempo. Voglio che adori l’universo e che sia facile piacerti, ma che tu sia pronta anche a trattare con impazienza quegli artisti che offendono le tue convinzioni più intime riguardo a cosa è o dovrebbe essere l’universo. (…). Leggi per il tuo piacere e soddisfazione, cominciando ogni racconto come se, solo sette minuti prima, avessi bevuto un bicchiere di liquore prelibato. (…) Riproduci l’indice del libro su un foglio di carta bianca, omettendo i numeri di pagina e sostituendo a ogni numero un voto dalla A alla F. I voti dovrebbero essere la misura infantilmente egoista e impertinente della tua gioia, o della sua assenza. Non m’importa che voti dai. Ma insisto che alcune storie ti debbano piacere più di altre. Scrivi un parere su ciascuna di esse immaginando di doverlo sottoporre a un superiore saggio, rispettato, spiritoso e un po’ stanco del mondo. Non scrivere come un critico accademico, né come un fanatico (…). Scrivi come una persona sensibile che abbia un paio di intuizioni pratiche su come le storie possono avere successo o fallire. Elogia o stronca a tuo piacere, ma fallo in modo categorico, pragmatico, con attenzione per i dettagli che disturbano o soddisfano”. Il lettore editoriale è assertivo, ma pure coinvolto emotivamente. Mostra un ambidestrismo che lo rende a un tempo rigoroso nell’eccepire a ogni implicazione con l’autore di quel testo eppure affettuosamente partecipe del tentativo che sta valutando. Legge da sobrio, ma con quel cucchiaio di alcol che lo entusiasma e ne aumenta la ricettività.
La perfidia, si sarà capito, non è tra le caratteristiche che dovrebbero essere riscontrate nel lettore editoriale, ma se così invece non fosse ci sarebbe da tirare in ballo l’intervento lampo che Giorgio Manganelli dedicò all’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Quando il libro uscì, dopo una gestazione durata vent’anni, nel 1985, l’autore dichiarò che ormai a quella sua opera, dopo così tanti ostacoli e lungaggini e sudore, “non poteva capitare più nulla”. Ebbene a capo di quella dichiarazione Manganelli chiosò malvagiamente così: “Nemmeno d’essere letta”. Il rischio di tutti i libri è questo e capita in modo assai più veritiero di quanto non sia stato con quello di D’Arrigo. Gli sciami di romanzi che convergono come si fossero dati appuntamento ogni giorno sulla scrivania del lettore editoriale rischiano di non essere letti da nessun altro se non da lui – lui che vive del privilegio e della condanna di leggere tutto ciò che si scrive. Per questo deve sorvegliare se stesso e avere fiducia nelle proprie opinioni, ma non sovrastimarsi. Leggere e, se utile per sfocare o rafforzare un primo parere che sente debole, rileggere. Per questo merita essere da solo. Il confronto è solo successivo alla lettura, durante distrae e diluisce il giudizio, lo annacqua. Se davvero sarà l’unico lettore di quel romanzo che sia il suo miglior lettore.
Capitano romanzi scritti in un tempo inferiore a quello che impiegherà il lettore editoriale a vagliarli e a compilare una scheda di valutazione, ma ne capitano altri su cui gli autori si sono spezzati le ossa. Per anni, per chissà quanti giorni la settimana, e chissà quante ore al giorno, hanno progettato, allestito e scritto la storia che adesso è nelle mani del lettore cui tocca dare un parere. L’autore ha rinunciato a un monte di altre cose nel frattempo: affetti distratti, libri da leggere mollati a metà, magari lavori inevasi. Il lettore editoriale per fare bene quanto gli è richiesto deve immaginare la delusione dell’autore dopo tanta fatica e impegno, deve avere la sensibilità di rammaricarsi per lui, deve avere un’indole per cui si dispiace parecchio della fatica che è costata a quella donna o a quell’uomo scrivere in così tanti anni un libro così tanto brutto. Si tratta di deformazione professionale, prevede delicatezza e riguardo quanto disciplina e rapidità di esecuzione. Si tratta pur sempre di pulcini.
Gabriele Di Fronzo è scrittore