L’esotismo di Molnár e lo sperimentalismo di Boyne
di Monica Bardi
dal numero di giugno 2016
Un classico che sembra improponibile e di fronte a cui viene da storcere il naso. Che alcuni non ricordano, altri associano a coercizioni infantili da parte di una scuola che imponeva la frequentazione della biblioteca d’istituto e la circolazione dei libri all’interno delle classi: I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár. Scritto da un ungherese 110 anni fa e ancora in grado (provare per credere) a incatenare al banco per un’ora di ascolto una classe di ragazzi della scuola media. Qual è la chiave di questo capolavoro? Innanzitutto proprio quell’esotismo che discende dall’appartenenza a un altro secolo e a un altro mondo: i ragazzi fanno parte della “società dello stucco” (perché masticano lo stucco delle finestre per tenerlo fresco e preparare i proiettili delle cerbottane) e oppongono un forte muro di resistenza al fronte degli insegnanti. Sono poveri, sporchi e cattivi. Intingono le penne nei calamai e si macchiano gli abiti e quando hanno due soldi comprano un pezzo di torrone da un ambulante italiano all’angolo della strada. Se si dividono in bande è per contendersi uno spazio vitale per potere giocare a calcio. Ma nulla è più serio di questa lotta fra ragazzi della via Pál e Camicie rosse, perché nel rapporto fra i ragazzi emergono i caratteri eterni delle nostre classi: Boka, il capo carismatico, generoso e giusto, Geréb, il traditore (che vive tutte le angosce di un Giuda redivivo), il sottoposto Nemecsek a cui va intera la simpatia del lettore; è l’unico soldato semplice nell’esercito improvvisato dei ragazzi e a lui toccano tutti i lavori pesanti e pericolosi, quelli che gli altri scansano e detestano. Nessuna attività su bullismo e ruoli all’interno della classe vale la lettura di questo libro. E in più è un ottimo esempio (se letto in una terza) di come uno scrittore sappia sentire “nell’aria” un evento imminente: la lotta fra bande, con tutto il grottesco messo in campo dall’antimilitarismo di Molnár, altro non è se non una rappresentazione minima della prima guerra mondiale che inizierà a breve. La vittima sacrificale di questo conflitto sarà proprio Nemecsek: piccolo grande eroe a cui tutta la classe si sarà nel frattempo terribilmente affezionata. Un ragazzo cinese che non riusciva che a scambiare qualche monosillabo con i compagni e si trincerava sempre dietro la difficoltà di comprendere le richieste dell’insegnante, si tradì proprio durante la lettura del passo relativo alla fine di Nemecsek: “Ma è davvero morto, prof?”. La scena della morte del piccolo soldato è in effetti indimenticabile, con il padre sarto stroncato dal dolore che, per non bagnare con le sue lacrime la giacca del signor Csetneski che stava riparando, la lascia scivolare sul pavimento: “Boka, in piedi in mezzo alla stanza, abbassò la testa. Poco prima, quando era seduto sulla sponda del letto, era riuscito a stento a trattenere le lacrime: adesso si meravigliava di non poter sfogare col pianto il suo immenso dolore. Si guardò attorno e sentì un gran vuoto dentro di sé. I suoi compagni erano rimasti in un angolo, vicini e sbigottiti. Davanti a tutti, Weiss con il diploma d’onore in mano, che Nemecsek non aveva potuto vedere (…). Non capivano nulla, avevano la mente vuota. Il loro compagno era morto, ma cosa significava per essi la morte? Se ne stavano in silenzio, turbati e perplessi davanti a quell’avvenimento strano e incomprensibile che, per la prima volta, tanto li turbava”. Una lettura eloquente, per la classe, quanto quella di Veglia di Ungaretti, che tiene insieme l’idea dell’insensatezza della guerra e il senso dello sbigottimento di fronte a una morte assurda e indecifrabile. Nel prato conteso dalle due bande verrà costruito un palazzo a tre piani: con l’immagine di Boka, che si allontana pensando all’inutilità della morte dell’amico, si chiude la storia della piccola comunità infantile di Budapest. La vicenda, piena di colpi di scena e imprevisti, imboscate, agguati e tradimenti, è avvincente e coesa, e non conosce cadute della tensione narrativa.
Diverso il caso di un’altra lettura sperimentata in classe, quella di Il bambino con il pigiama a righe di John Boyne. La vita di Bruno, figlio di un ufficiale nazista e costretto a lasciare Berlino per trasferirsi in una casa di campagna, a poca distanza dal campo di concentramento, si svolge fra la noia domestica di studi e giochi e il desiderio di esplorazione che lo condurrà (secondo una modalità poco verosimile, vista l’assenza di controllo da parte delle guardie del campo e la presenza di un bambino di otto anni in grado di circolare con una certa libertà fino ai limiti della recinzione) a conoscere Shmuel, il bambino con il pigiama a righe. Come nel caso di L’amico ritrovato, la narrazione di una quotidianità condivisa, troppo minuziosa e sottile (nell’analisi della relazione fra i due, come di quella fra il protagonista del libro di Uhlman e Konradin von Hohenfels) finisce con il risultare stucchevole e monotona. Ma il fallimento dell’esperienza di lettura è da attribuirsi alla circostanza per la quale gli studenti spesso si apprestano ad ascoltare la lettura del romanzo dopo aver assistito alla visione del film, diretto e sceneggiato nel 2008 da Mark Herman. La fine del libro lascia intuire la verità sulla morte di Bruno, chiudendosi sulla disperazione dei genitori che non riescono a ritrovare il figlio e lo cercano invano per mesi. I vestiti del ragazzo, ritrovati accanto alla recinzione, costituiscono l’unico segnale di un tragico epilogo non raccontato. Il film invece va fino in fondo nella rappresentazione del dramma secondo il quale il ragazzo entra nel campo, attraverso un passaggio sotto la rete per aiutare Shmuel a ritrovare il padre e viene condotto insieme agli altri nella camera a gas. Le scene del film, che sembrano svolgere in modo consequenziale l’evangelico dettato per cui “non bisogna fare agli altri quello che non piacerebbe fosse fatto a sé” mettono in atto quel “rovesciamento della realtà storica” in grado di operare una rivalsa “retrospettiva”, secondo lo stesso meccanismo messo in atto da Tarantino in Bastardi senza gloria. Come ha spiegato recentemente David Bidussa, presentando il libro di Carlo Greppi Uomini in grigio (2016), alcune immagini e situazioni narrate in un libro di storia risultano più evidenti alla luce del folgorante incipit del film, con l’ufficiale nazista che fa visita al francese che ha nascosto i vicini ebrei sotto le assi del pavimento. In un modo simile, la tensione messa in atto nella parte finale del film Il bambino con il pigiama a righe, con la corsa disperata del padre di Bruno, che cerca il figlio in ogni angolo del campo e comprende quale è stata la sua fine, finisce con il togliere ogni mordente a una lettura in cui la storia si limita, con maggiore eleganza stilistica, a insinuare un sospetto molto verosimile. L’immagine, potente e kitsch, può appiattire l’impatto del racconto scritto. Del resto, in tempi non sospetti (e quando ancora il cinema non c’era) Mary Shelley, nella versione definitiva del Frankenstein (1831), dovette cambiare alcune cose, tenendo conto dell’impatto sul pubblico delle rappresentazioni teatrali tratte dalla prima edizione (1918) del proprio libro.
Letture in classe – La biblioteca condivisa dell’Indice
Mettere in comune le esperienze vere, praticate nelle aule, per andare progressivamente a formare una biblioteca scolastica condivisa, confrontando ogni mese le vostre letture di successo, ma anche quelle fallimentari: è lo scopo di questa rubrica che servirà ad arricchire lo scaffale virtuale dedicato ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado.