Cesare Sinatti è il vincitore ex-aequo della XXIX edizione del Premio Italo Calvino
dal numero di giugno 2016
Elena e Clitemnestra
Era seduta sulla radice nodosa di un ulivo e strappava i petali di un fiore. Lanciava alla sorella occhiate nervose, chinata tra i fiori e le erbe selvatiche. Avevano visi così simili. I lineamenti scolpiti con cura, come dalla mano di un artigiano meticoloso e preciso alla ricerca di una forma perfetta, il naso ricordava quello delle statue di Artemide ed Atena. La bocca giovane e piena formava in entrambe una curva impercettibile verso il basso, rivelando una concentrazione segreta attorno a qualche pensiero ricorrente.
Lei sapeva bene quale fosse il proprio. Era la grazia, l’incanto senza pecche della sua gemella. Aveva solo otto anni, come lei, ma possedeva qualcosa in più, anche se avevano lo stesso viso, lo stesso corpo. Lo stesso uovo le aveva messe al mondo, ma a Elena aveva fatto il dono della luce. Aveva il sole tra i riccioli biondi come il croco, un chiarore stellare negli occhi azzurri. Le minuscole pupille nere erano incapaci di dilatarsi, come se tutta la luce fosse già nelle sue iridi celesti, irraggiate da lampi di smeraldo.
Tutta la chiarezza era andata a sua sorella. Clitemnestra aveva capelli neri e radi, non si avvolgevano in riccioli perfetti ma crescevano crespi, come i fili male intrecciati di qualche lana grezza. Rifiutava di farli crescere lunghi come quelli splendenti di Elena, per vergogna. I suoi occhi castani, così comuni, non avevano alcuna luce e la sua pelle aveva imperfezioni, piccoli nei e macchie appena visibili, dove quella bianca, marmorea di Elena non ne aveva alcuna.
Non potendo più infierire sui petali del fiore, prese ad annodarne il gambo. Elena sedeva ancora tra i fiori nel suo piccolo abito bianco senza macchie e il sole del pomeriggio sulla piana di Sparta pareva attraversarla, come fosse trasparente.
La detestava. Detestava di non poter negare, di non potersi nascondere da lei. La gente di Sparta le guardava con occhi diversi. Per Elena c’era solo meraviglia e rapimento. Si era diffusa dalle bocche dei servi la storia del cigno e di sua madre Leda, ed Elena era stata da tutti riconosciuta come figlia del padre degli dei. Clitemnestra l’aveva vista camminare a braccia aperte nella pioggia, nei boati dei temporali estivi, accogliendo le gocce sul suo viso immobile, e aveva creduto che Elena parlasse con suo padre.
Per lei gli dei erano muti. Non aveva mai udito una voce, nei templi, in risposta alle preghiere e ai sacrifici e se ne vergognava. Le sembrava di non essere parte di quel mondo mutevole, dove gli dei camminavano con gli uomini, il mondo di storie e miti da cui proveniva sua sorella.
Di lei dicevano fosse la figlia di Tindaro. Aveva cercato la menzogna negli occhi di suo padre, quando gli raccontava che anche lei era nata dall’uovo. Aveva dubitato dei racconti di sua madre. Lacerata, si era addormentata piangendo prima di dormire, temendo di non essere figlia degli dei, anche se il suo viso era identico a quello di Elena. In quei giorni infelici, quando aspettava in solitudine nei pressi dei templi, sotto gli sguardi gemmati delle statue, aveva pregato che Elena morisse.
Un giorno d’estate erano venuti due stranieri. Era un pomeriggio lungo, incapace di finire, come quello in cui adesso osservava Elena raccogliere i fiori. Gli stranieri indossavano armature di cuoio e avevano i capelli neri, brizzolati sulle tempie. Camminavano con falcate da lupi e c’era in loro qualcosa di infantile, di giocoso. Ridevano fra loro come fossero fratelli.
Uno di loro portava i capelli lunghi e una barba fina gli cresceva sul mento nascondendo una cicatrice che saliva fino alla guancia. Le storie di cui l’avevano nutrita le fecero venire in mente qualche mortale combattimento con creature mostruose, tra i meandri di luoghi intricati e oscuri. Il suo compagno, dai capelli corti e ricci lo trattava come se avesse vissuto con lui infinite avventure.
I petti gonfi, le gambe muscolose vibravano ancora di una forza adolescente. Avrebbero cacciato come leoni, fino all’ultimo istante disperato della loro giovinezza, questo dicevano i loro occhi. Finché le prede non fossero diventate più rapide di loro, finché le loro forze non li avessero traditi. Avrebbero giocato al gioco della vita, finché potevano.
Clitemnestra li vide correre verso sua sorella. Chiamò il nome di Elena più volte, spaventata, tremando di paura, e lei si voltò soltanto, senza muoversi. Non temeva nulla. Aveva sei anni e anche quel pomeriggio coglieva i fiori selvatici. L’uomo dai capelli lunghi aveva afferrato la sua vita di bambina ed era scomparso ridendo assieme al complice.