Elisabetta Pierini è la vincitrice ex-aequo della XXIX edizione del Premio Italo Calvino
dal numero di giugno 2016
Excipit
Era notte fonda. Dalle tende scostate Eva vide il pallido cerchio della luna come un viso cancellato e senza espressione: un viso che le era familiare. Il corvo era vicino al suo letto, proprio sul comodino, e dormiva tenendo la testa sotto l’ala nera come sotto le lenzuola. Eva si mise a sedere sul letto e accarezzò il corvo che girò la testa e volò via. Un raggio di luce bianca entrava dalla finestra aperta, sfiorava i capelli della bambina che erano neri e lucidi come le ali del corvo. Eva stese il braccio, che si allungò a dismisura fino a toccare il cerchio diafano: splendeva grande fuori dalla finestra come un’enorme pupilla. In quel momento, tutto là fuori si illuminò: la via e le case, l’una dopo l’altra si accesero e cominciarono a girare su invisibili binari. Le sembrò di sentire una specie di cantilena fatta dal frinire dei grilli, dal miagolio dei gatti e dal canto di alcuni uccelli notturni. La via era piccola e ogni appartamento era come una casa di bambola. Ogni casa si poteva scoperchiare e aprire. A Eva sembrava una giostra meravigliosa, una giostra di case di bambola.
Si alzò in piedi sul letto. Il suo bacino era guarito, le ossa si erano rincollate insieme come pasta di pane. Allungò la mano attraverso la finestra, prese quella giostra di case e l’appoggiò sul suo letto. Scoperchiò i tetti guardando dall’alto ogni casa e ogni persona. Prese Marta e la vicina, una alla volta, con la punta delle dita. Mise la vicina nella cucina del suo appartamento vicino alla culla dove il neonato piangeva da ore, senza che nessuno lo ascoltasse. Eva sentiva la stanchezza della vicina come un oggetto con un suo peso e colore. Cullò il bambino con l’unghia, lo accarezzò con la punta del mignolo. Aspettò di sentirlo dormire, di sentire il suo respiro impastarsi con la notte, fino a cancellarsi. Marta la appoggiò in salotto sulla sedia a dondolo a guardare fuori della finestra. Da qualche parte dentro casa il telefono squillava, un suono remoto che si amplificava dentro la notte come dentro un tubo vuoto ma Marta non andava a rispondere, non si muoveva come se non lo sentisse. Eva prese Laura tenendola per i piedi come una bambola, a testa in giù. I suoi capelli toccavano il pavimento facendogli il solletico, lo spazzavano come capelli di bambola. Mise Laura sul tetto a guardar fuori il disco di latte e le case che giravano in tondo sui loro binari. Le case erano tutte illuminate, dalla prima all’ultima.
Ogni casa, a guardarla scoperchiata, era piena di polvere di luna, polvere di follia, una polvere grigia che faceva venire cattivi pensieri. Aprì ogni tetto, ripulì ogni cosa, cambiò di posto a ogni bambola. Prese il camper e lo portò indietro nel campo e liberò le galline dalle corde. Le galline si misero a razzolare nel campo.
Eva allargò le braccia e le sembrò di essere coperta di piume d’uccello. Le luci dei lampioni illuminavano la via come grandi zucche gialle: sbocciavano e si spegnevano e sbocciavano di nuovo. Eva vedeva le finestre avvicinarsi e volava senza sentire la fatica del movimento. L’aria la spostava appoggiandola di qua e di là sulle braccia delle sue invisibili correnti.
Nella camera vide sua madre, con la bambola di Nicola Piccoli in mano: guardava e parlava alla bambola come non faceva mai con lei. L’infermiera dormiva e Alma era sola. Aveva lo stesso sguardo vuoto della pupilla di luna. Disse a sua madre di andare a dormire ma Alma non si muoveva come se fosse stata una bambina. Aveva paura del corridoio buio, della sua camera vuota, delle ombre degli alberi che si agitavano nella notte come anime in pena. Da qualche parte il tempo si era rovesciato e lei era la madre di sua madre.
“Vai a letto è tardi”, ordinò Eva con la sua voce da vecchia. Seguì sua madre a piedi nudi nel corridoio buio, dove gli insetti scappavano nelle crepe del muro. Lo specchio le rimandò l’immagine di una bambina bianca e senza ali. Controllò che sua madre si mettesse buona a letto. Restò a piedi nudi ferma, in attesa. Come il respiro di Alma si fece pesante, Eva chiuse gli occhi. Aspettò un lungo momento per essere certa di essere di nuovo sola. Poi allungò le mani che si cancellarono nella notte e sbatté le sue ali nere.
La finestra era aperta e là fuori la sera spalancava la sua grande bocca nera per inghiottirla in un morso. Eva non aveva paura. Osservò le punte degli alberi tremare, contorcersi ma poteva alzarsi più in alto di loro senza difficoltà. Era contenta per una volta di essere riuscita a trovare la misura di qualcosa. Poi si ritrovò di nuovo minuscola e rimpiccioliva mentre volava verso il cipresso nero, fino alla punta dell’abete che la solleticava, fino a diventare come un moscerino, un’ombra. Puntò in alto verso il cerchio latteo come un’orbita vuota, come la canna di un fucile. Quando le sembrò di poterlo toccare tutto ricomparve improvvisamente: le quattro galline arrivarono in volo inseguendo vermi volanti che lasciavano scie nel cielo; le case illuminate si misero a girare di nuovo in tondo. C’era qualcosa di allegro in quelle case uguali, dai colori vivaci che ospitavano gente dai pensieri pesanti come dense bolle d’inchiostro.
Eva si fece trasportare in alto dalle correnti fino alla pupilla bianca di luna. Si avvicinò all’occhio, lo pizzicò con il suo becco d’uccello e lo spense.
La via scomparve, una casa alla volta, una persona alla volta. In una frazione di secondo tutto si disfece.