La nascita dell’economia cristiana
recensione di Massimo Vallerani
dal numero di maggio 2016
Giacomo Todeschini
LA BANCA E IL GHETTO
Una storia italiana
pp 239, € 22
Laterza, Roma-Bari 2016
Nell’Italia degli stati regionali e delle città tra Quattro e Cinquecento presero forma due istituzioni contrapposte e speculari: la banca da un lato, sede del prestito del denaro a interesse legalizzato; il ghetto dall’altro, luogo delimitato del piccolo commercio del denaro a usura, tollerato ma pubblicamente relegato all’esterno del circuito economico virtuoso che alimentava il corpo civico cristiano. Il libro di Todeschini vuole ricostruire la nascita delle due facce dell’economia cristiana: una interna e costitutiva del corpo civico, l’altra esterna e potenzialmente distruttiva. Il centro dell’analisi, come si è capito, è il concetto di corpo civico, e ancora di più il suo mantenimento dovuto alla sacralizzazione del debito pubblico sostenuto dai cittadini: prestare allo stato e ricevere un interesse non solo era lecito ma era anche moralmente giusto. Questa funzione positiva, in teoria aperta a tutti, era nei fatti riservata a una ristretta élite di mercanti finanziatori, che sapevano come radunare e come spendere il denaro necessario per la felicità della repubblica. Si formò così un’élite multiforme e onnicomprensiva, che distribuiva sapientemente gli incarichi e i carichi secondo una logica allo stesso tempo comunitaria e personale, familiare e statale. Dalle pagine di Todeschini questa continuità dei piani emerge bene come caratteristica di fondo di un’oligarchia bancaria che si fa anche statale cambiando le regole del gioco politico in maniera irreversibile.
La saldatura tra fortune private e ricchezza pubblica – sotto la copertura ideologica e contabile del debito pubblico – creò un sistema di governo fortissimo e chiuso, portato naturalmente alla discriminazione e all’autoriproduzione. Un sistema perennemente in difesa dagli attacchi di una massa di sub-cives di scarso peso economico, incapaci di fare e di capire i “giochi dello scambio” e quindi inadatta al governo della città. Si assiste quindi a un’inesorabile svalutazione, in tutti i sensi, della loro attività minuta e irrilevante sul piano delle finanze pubbliche. Il prestito ebraico rientrò in questo processo di emarginazione: tollerato ma svalutato ritualmente, utile per la piccola economia quotidiana, per i bisogni dei corpi di poco valore, ma esterno e staccato dal grande corpo civico collettivo. I prestatori ebrei, attori estranei per lingua, religione e provenienza dalla società cittadina, furono quindi i portatori (inconsapevoli?) di un’idea svalutata di economia, che nelle cose e nelle persone doveva mostrare pubblicamente la sua estraneità alla vera economia cristiana. Il ghetto è l’esito inevitabile di questa opera di separazione sociale e politica messa in atto dalle oligarchie italiane del XV secolo: un luogo fisicamente separato dove concentrare questi circuiti economici bassi, carnali, fisici e destinati al consumo immediato senza prospettive di sviluppo, esterni alla ricchezza collettiva.
Fu veramente una “storia italiana” allora? Cosa differenzia il caso italiano dalle parallele vicende delle città europee che in molti casi videro una affermazione simile delle élite finanziarie? Forse l’assenza di una presenza diretta del potere regio che immettesse queste oligarchie in un assetto politico superiore, costringendole a coordinarsi con enti e interessi diversi e più alti. In Italia, al contrario, il dominio cittadino, locale e familiare di queste oligarchie è rimasto immutato per secoli.
M Vallerani insegna storia medievale all’Università di Torino