L’incertezza è in agguato
intervista a Jonathan Coe di Mattia Zuccatti
dal numero di maggio 2016
Numero undici viene presentato come un “sequel che non è un sequel” di La famiglia Winshaw, il suo romanzo più conosciuto in Inghilterra. Che cosa può dirci della genesi del libro, che cosa l’ha portata a rivisitare quel romanzo vent’anni dopo?
Prima ancora di pensare al contenuto, avevo l’intenzione di scrivere un libro lievemente inquietante, che mettesse un pizzico di paura. Più avanti, prendendo appunti e pensando alle storie, ho capito che c’erano aspetti, come la scelta del genere gotico e l’impegno sociale del libro, che lo ponevano in relazione con La famiglia Winshaw. Non volevo essere accusato di ripetermi, e il fatto che i suoi protagonisti morissero è stato liberatorio: non dovevo tornare a occuparmi di loro. Ho trovato qualche personaggio ai margini e l’ho fatto ricomparire con un ruolo diverso. Ma la genesi del libro è legata maggiormente al sentire – difficile da spiegare – che il presente andava raccontato spingendosi nel territorio dell’orrore o del fantascientifico.
Il romanzo si apre con il racconto di uno scherzo giocato a Rachel dal fratello maggiore. Nicholas approfitta dell’affidamento incondizionato che la ragazzina riserva a chi dovrebbe guidarla. Poco più avanti appare il caso di David Kelly, l’ispettore dell’Onu trovato morto all’apice del dibattito sulla partecipazione del Regno Unito alla guerra in Iraq. Due storie sulla fiducia tradita, uno dei temi della narrazione.
Parallela alla storia di una ragazza che perde tragicamente le sue illusioni a partire da quello scherzo nella cattedrale, c’è la storia di un paese che perde le proprie, una ad una. Uso la morte di David Kelly perché rappresenta un punto di svolta nell’atteggiamento del popolo verso Tony Blair e il suo governo. Quello è stato il momento in cui abbiamo smesso di credere che il governo agisse con onore. Ma anche la fiducia che agisca in modo almeno competente è stata infine rimpiazzata da qualcosa di molto pericoloso: un cinismo sospettoso e rassegnato. Questo sentimento viene registrato da Numero undici e lo rende un libro meno vivace di La famiglia Winshaw, che era piena di una certa rabbia, un’energia giovanile. Volevo che il libro non arrivasse ad esserne paralizzato, e che ne facesse anche una critica.
Un altro obiettivo di critica sono i social media. Per come li descrive, sembra che l’umano sia troppo grande per i loro schematismi. Giocano un ruolo importante nelle nostre vite. Danno forma al modo in cui comunichiamo. Hanno modificato per sempre il nostro modo di intendere la realtà?
Il genio è uscito dalla lampada e non c’è modo di farlo rientrare. Nel bene e nel male. Ho seguito ad esempio i fatti di Bruxelles su Twitter: da una parte c’erano persone che offrivano il loro aiuto, lasciando il proprio numero di telefono, e dall’altra la solita serie di commenti idioti. Anche io sono attivo sui social, ma ciò che trovo frustrante è la mancanza di sfumature, di zone grigie, il fatto che incoraggino un pensiero binario. Ho cercato di mostrarlo nella storia di Rachel e Allison. Hanno un’amicizia sana, commovente, che viene interrotta per una stupida incomprensione in uno scambio di messaggi. L’eccessiva semplificazione e l’impazienza che i social generano nel ricevere informazioni e azzardare giudizi possono diventare nemici delle relazioni umane.
In un articolo per il Guardian scrive: “La satira sopprime la rabbia politica anziché metterla a frutto. Energie politiche che potrebbero essere tradotte in azione sono invece canalizzate in comicità e rilasciate – dissipate – attraverso il riso”. Nel libro un personaggio agisce assecondando un pensiero molto simile, e comincia a uccidere comici. Si può dire che il comico sia stato in qualche modo soppresso anche in questo romanzo, soprattutto comparandolo con La famiglia Winshaw?
L’articolo più lungo che ho scritto sul comico l’ho scritto per The London Review of Books. Utilizzo l’esempio Boris Johnson, che è apparso come ospite in un programma satirico e ha avuto così tanto successo da diventare conduttore dello show per alcuni episodi. Era bravissimo. Non dimentichiamoci che Johnson è molto intelligente. Possiede una calcolata, carismatica combinazione di auto-parodia e fascino genuino: sa come rendersi amabile, con la sua zazzera incolta e un fare da orsacchiotto. È stata la partecipazione allo show a conferirgli l’immagine pubblica che gli ha permesso di diventare sindaco di Londra. Questo è esattamente il contrario di ciò che la comicità politica si propone di fare: ha aiutato la carriera di un politico. In Inghilterra abbiamo una forte tradizione in questo tipo di comicità, ne facciamo un feticcio. Ma come tante altre cose di cui parlo in Numero undici, è diventata solo un riflesso incondizionato alla situazione politica. Però c’è un altro tipo di satira, possiamo definirla seria, il cui esempio supremo si può trovare ne I viaggi di Gulliver. In quel libro lo humor scompare gradualmente. La parte finale sugli Yahoo e i cavalli parlanti è di certo satirica, ma anche capace di veicolare incertezza e disagio. Ho cercato di prendere spunto da queste tonalità per far provare al lettore una sensazione di inquietudine, oltre che divertirlo.
Il libro che Michael scrive sulla famiglia Winshaw aiuta di fatto a incastrarne i membri e a fare giustizia. In qualche modo la letteratura era dalla parte dei buoni. Il personaggio di Laura – l’intellettuale di Numero undici – si avvicina invece all’establishment scrivendo Monetizzare lo stupore, un saggio che si propone di dare un valore economico ai sentimenti. Per un certo verso è complice del sistema, per un altro il suo obiettivo appare nobile: dialogare con un mondo che conosce soltanto il linguaggio del denaro e che potrebbe aiutare…
Credo che Laura stia ingannando se stessa e Rachel, quando dichiara di agire affinché si presti più attenzione alle emozioni umane. Conosco intellettuali chiamati a stimare una proprietà perché Wordsworth vi aveva scritto una poesia, guardando il paesaggio dalla finestra. E quindi quanto aggiunge al valore dell’abitazione la poesia di Wordsworth? Credo sia un modo semplicemente ridicolo di guardare il mondo. Ecco perché ho scelto di coinvolgere Laura in questa folle macchinazione per attribuire un valore economico al mostro di Loch Ness: volevo che apparisse il più stupido possibile.
Qual è il suo rapporto con il linguaggio? Nei suoi libri appare spesso quasi protagonista: rivela, nasconde, complica e cambia le regole. Viene anche utilizzato per snodi importanti della trama, come in quest’ultimo, dove una parola rivela un assassino.
Trovo il linguaggio difficile e frustrante, una delle molte ragioni per cui invidio i musicisti è il fatto che possano esprimersi senza ricorrere alle parole. Affronti il linguaggio a due livelli quando scrivi. Da una parte cerchi di dominarlo, e ingaggi una battaglia per ottenere il controllo, e dall’altra certe volte ti abbandoni, lasci che il linguaggio subentri e detti il corso del libro. Come temperamento, sono più incline allo scenario che vede il controllo al suo centro: ecco perché sono molto interessato, e spesso divertito, dalle occasioni in cui il linguaggio si ribella al suo signore.
La casa del sonno è uno dei suoi libri più amati in Italia?
Non conosco i dati di vendita, ma è il libro che più mi chiedono di autografare.
Lei sogna ancora?
Sogno molto raramente e mi manca davvero molto. Quando accade, si tratta di sogni piuttosto spiacevoli. Sogni ansiosi. Ho sempre pensato che invecchiando si diventasse più stabili e a proprio agio nel mondo, ma ho scoperto che per me accade il contrario. Il mondo sembra un posto non dico più spaventoso, ma più instabile. Non soltanto in termini di eventi globali, ma in generale, per come la vita va avanti. È un po’ il sentire che ho cercato di portare al lettore in Numero undici. Si cammina sempre su un terreno leggermente instabile, dove a ogni passo potrebbero aprirsi trappole o apparire sabbie mobili. L’incertezza è sempre in agguato.
Sul numero di maggio Mattia Zuccatti ha recensito Numero Undici di Jonathan Coe.