Mangiafuoco con la ventiquattro ore
recensione di Lorenzo Avola
Martin Suter
MONTECRISTO
ed.orig. 2015, trad. dal tedesco di Marina Pugliano
pp. 296, euro 16
Sellerio editore, Palermo 2016
«La verità è come la poesia, e alla maggior parte della gente sta sulle palle la poesia» è il mantra del film candidato a cinque Premi Oscar nel 2015, La grande scommessa, diretto da Adam McKay e basato sul libro di Michael Lewis The Big Short – Il grande scoperto. È una storia per immagini che fruga nelle ombre della più recente crisi finanziaria, provando a smascherare un sistema scricchiolante, sull’orlo del precipizio, minacciato da avvoltoi decisi a trarre profitto dalla gigantesca “bolla” che sta per esplodere. Due ore e dieci minuti di tassi fissi, crack, tecnicismi finanziari, eppure la narrazione prende e non molla fino ai titoli di coda. Perché sulle vicende aleggia un fascino misterioso che da sempre seduce i non addetti ai lavori: è l’aura austera di uomini in giacca e cravatta che, nell’immaginario comune, impugnano le redini dell’economia mondiale e del potere che ne deriva; è l’ambiguità della dietrologia, che serpeggia in ogni dibattito sulla finanza e che rassicura chi è seduto a leggere il giornale a casa, lontano dai segreti dei palazzi. È l’attrazione morbosa e fatale per il complottismo della cupola, che, come un Mangiafuoco con la ventiquattro ore straripante di fascicoli criptati, armeggia a proprio piacimento con i fili di burattini ignari.
Montecristo, nel solco del thriller
Montecristo di Martin Suter muove i propri capitoli dentro a questo solco, nelle pagine avvincenti di un thriller ambientato nella Svizzera del denaro occulto. Il protagonista è Jonas Brand, videoreporter con sogni da regista cinematografico e un progetto come obiettivo di vita: una rivisitazione sul grande schermo del classico Il conte di Montecristo. La miccia narrativa è la scoperta di due banconote da cento franchi svizzeri con lo stesso numero di serie; imbastendo un’allegoria che parte dal titolo e si dipana fino all’ultimo punto del romanzo, Suter mescola con perizia gli ingredienti più esplosivi del giallo: un suicidio, un’indagine rischiosa senza punti d’orientamento, la storia d’amore passionale con Marina, una catena di morti sospette e una matrioska di risvolti che investono la politica e il capitalismo su scala globale. Anche qui, quella bolla che sta al di sopra di tutto e di tutti: «Ma fino a quel momento continueremo tutti a fluttuare nella grande bolla di sapone. E ci muoveremo con la massima cautela perché nessuno vuole che la bolla scoppi», è la sentenza di Gobler, comparsa della parte finale dell’opera, che sancisce la linea di demarcazione tra l’apparenza del reale e il suo significato più profondo, quello della verità. Montecristo, negli snodi conclusivi, si mostra per ciò che è e si spoglia della maschera superficiale da thriller, perché qui non c’è un colpevole, c’è soltanto un movente: la caccia all’essenza della verità. Suter, con la telecamera di Brand, sfruttando il potenziale magnetico delle banche, della finanza e dello show business, mette a fuoco la lente sull’importanza del vero, sull’integralismo ideologico che questo esigerebbe e sui compromessi inevitabili con la menzogna. La terza parte di Montecristo, più delle altre – che sono attraenti preludi dell’intuizione dello scrittore-, è un manuale di disillusa sopravvivenza nella contemporaneità degli scandali bancari. Le parole di Marina tuonano e non lasciano indifferenti: «A volte per proteggere qualcuno bisogna tradirlo».
L’ultimo lavoro di Martin Suter è dunque un cinico manuale delle istruzioni che, edulcorato da una scrittura raffinata ed equilibrata, sostenuto da un ritmo serrato, incalzante, coinvolgente, scrolla via di dosso il torpore della chiacchiera malevola da bar invitando a scovare con raziocinio le congiure quotidiane. Soltanto allora, con occhi aperti e accorti, degni delle difese argomentate del Catilina di Sallustio, bisogna scegliere da che parte stare. Accettare il ricatto o infrangere il muro di silenzio, a costo di tutto?
Montecristo è un vortice di prosa spietata, intrisa di humour nero; è un manifesto di soppesato pessimismo su un universo in mano a pochi manipolatori di ricchezza, un deliberato attacco alle rassicurazioni di una visione “poetica” del tutto. D’altronde, come suggerisce La grande scommessa, alla maggior parte della gente sta sulle palle la poesia.
L. Avola è studente alla Scuola Holden