In conflitto fra sentimenti personali ed esigenze della comunità
recensione di Francesco Pettinari
Thomas Vinterberg
LA COMUNE
con Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Helene Reingaard Neumann, Martha Sophie Wallstrom Hansen
Danimarca, 2015
Convivere, vivere insieme, fare esperienza di vita comunitaria: questo potrebbe essere l’avvicinamento progressivo al significato di che cosa si poteva intendere, negli anni settanta del Novecento, nel momento in cui si costituiva quella forma non convenzionale di famiglia consegnata alla storia con il nome di “comune”. E La comune è il titolo del nuovo film di Thomas Vinterberg (quello originale è Kollektivet) che arriva nelle nostre sale, distribuito da Bim, dopo essere stato presentato in concorso all’ultima edizione della Berlinale, dove è stato accolto con molto favore sia dalla critica sia dal pubblico, entrando nel palmares con il meritato Orso d’argento per la migliore interpretazione femminile andato a Trine Dyrholm per il ruolo della protagonista Anna.
Due considerazioni si pongono come necessarie per una fruizione più completa di questo film. In primo luogo, non è casuale che proprio Vinterberg abbia voluto realizzare un’opera dedicata a questo fenomeno, in quanto il regista danese, classe 1969, ha trascorso un periodo considerevole della propria vita, ben dodici anni, e in una fase formativa importante, quella che va dai sette ai diciannove anni, in una comune di Copenhagen. Il film non è una trascrizione letteralmente autobiografica, ma sicuramente la resa dell’atmosfera libertaria sia in senso intellettuale sia in senso comportamentale che arriva allo spettatore durante la visione del film deve la sua riuscita all’esperienza di vissuto reale che il regista ha trasfuso nel racconto. In secondo luogo, giova ricordare che proprio a Copenhagen, nel 1971, un gruppo di hippies fondarono, occupando gli edifici di una base militare dismessa, Christiania o la “città libera”, una comunità basata sul principio dell’autodeterminazione e della proprietà collettiva, con tanto di libera circolazione della droga leggera e con tanto di pusher street; ancora oggi, i circa mille residenti vivono in uno status semilegale in questa comunità indipendente che rimane il manifesto concreto più significativo dell’ideologia del tempo.
Disgregarsi in una comune
La comune di Vinterberg non è però una celebrazione acritica di quel tempo, non è un film che si porta addosso la pesantezza dell’idealizzazione e della nostalgia di un periodo passato: al contrario, il regista trasmette tutta la portata contraddittoria fatta di contrasti e disillusioni che hanno segnato quell’esperienza e ne hanno – dal suo punto di vista – decretato il fallimento.
Per fare questo, Vinterberg innerva sul terreno ideologico una vicenda, una storia molto coinvolgente, legata al percorso di un nucleo familiare che si disgrega proprio nel contesto di una comune. Peraltro, va ricordato che proprio nei suoi due film di maggior rilievo, Vinterberg si è guadagnato la fama di essere particolarmente capace di analizzare le dinamiche interne a un gruppo. Uno è il film che l’ha consacrato a livello internazionale, Festen, del 1998, dove ha smascherato le ipocrisie e il conformismo di una famiglia dell’alta borghesia danese mostrata durante una cena – e questo è anche l’unico film realizzato applicando alla lettera tutti i precetti di uno dei manifesti del cinema più discussi degli ultimi decenni, quello di Dogma 95, ideato e scritto da Vinterberg insieme al suo maestro Lars von Trier. Il secondo è Il sospetto (titolo originale The hunt), del 2012, che ha regalato, tra i numerosi premi, il riconoscimento a Mads Mikkelsen come migliore attore a Cannes, per la sua straordinaria interpretazione di un maestro d’asilo sospettato e ingiustamente accusato di pedofilia dagli abitanti di un piccolo paese danese, secondo la logica del gruppo che ha bisogno di scaricare le proprie frustrazioni su un capro espiatorio.
Nella comune del nuovo film la dinamica del gruppo si sviluppa al quadrato. Si parte da una famiglia felice, composta da tre elementi: Erik e Anna, una coppia di intellettuali, lui docente di architettura all’università, lei giornalista televisiva assai popolare, e la loro figlia Freja, una ragazzina appena quattordicenne, ma già molto matura. Dopo la morte del padre, Erik eredita una casa molto bella e molto grande – quattrocentocinquanta metri quadrati – con giardino, vicina a campi da tennis e al circolo nautico, e Anna, a fronte delle spese e anche perché pensa di ravvivare la routine matrimoniale, propone al marito riluttante l’idea di invitare gli amici e costituire, giustappunto, una comune. Ecco allora – come se si trattasse di una sorta di casting per un reality - prendere corpo la formazione di un gruppo eterogeneo formato da un’altra coppia con un bambino affetto da patologia cardiaca e dal destino segnato, e tre single, due uomini e una donna.
Il naufragio di Anna
A parte lo straniamento di Erik – il quale ha rinunciato a essere il padrone a favore di una proprietà collettiva della casa, benché quasi tutti siano senza lavoro e senza soldi -, tutto sembra procedere per il meglio: si vive a base di riunioni giornaliere per manifestare il proprio stato d’animo e per discutere democraticamente tutte le decisioni da prendere. L’equilibrio si rompe quando Erik comincia una relazione extraconiugale con Emma, una sua studentessa, una ragazza moto bella – come le dice un abitante della comune, sembra uscita da un film francese -, e quando questo rapporto viene alla luce, scoperto da Freja, a pagarne le conseguenze sarà proprio Anna: comincia a bere, perde il lavoro, diventa nevrotica: proprio lei, che in un primo momento aveva suggerito a Erik di portare Emma a stare nella comune, si troverà a vivere davanti al gruppo la crisi del suo rapporto, l’amore che lega il marito alla ragazza, e la conseguente separazione che la porterà a dover abbandonare, almeno per un periodo, l’esperienza di vita che la sua visione progressista aveva fortemente voluto.
La seconda parte del film è quella che si concentra maggiormente sul naufragio di Anna e che regala allo spettatore i momenti più validi dell’ottima recitazione di Trine Dyrholm. In tutto questo però si innerva, sin dall’inizio, un livello narrativo che è forse quello più coinvolgente, quello che mostra la visione del mondo degli adulti da parte di Freja: lei è la testimone, l’osservatrice silenziosa di tutti gli eventi, quelli gioiosi e quelli drammatici, e soprattutto, in relazione alla separazione dei genitori, è lei che con le sue parole, con i suoi atteggiamenti, o semplicemente con il suo sguardo, contribuisce a non far degenerare la situazione. Non sarà azzardato pensare che Vinterberg proietti proprio su Freja il punto di vista legato alla propria esperienza di vita, specie se si pensa al finale. Alla separazione dei genitori si aggiunge la morte – più volte, forse troppe volte, anticipata – del piccolo Villards: eppure, la reazione di Freja a tutto questo non è il cinismo, non è la chiusura, bensì l’affermazione di una volontà positiva – di un vitalismo – che si manifesta nella dichiarazione d’amore a un ragazzo che frequenta, e con il quale, proprio in reazione alla crisi dei suoi, ha già fatto sesso.
La comune non è un film che arriva all’altezza del capolavoro, come è Il sospetto, anzi, molto probabilmente lo spettatore dell’Europa del sud non potrà non percepire una certa freddezza – tipicamente nordica – nella rappresentazione dei sentimenti, una mancanza di quell’elemento caldo, melodrammatico, tipico invece della sensibilità del sud, specie se si pensa alla dinamica di una crisi coniugale e di una separazione, ma questo non può essere un difetto, semmai una specificità del film. Vinterberg si conferma comunque un regista talentuoso: ha saputo confezionare una commedia sociologica punteggiata da tratti drammatici, dove la trama si snoda attraverso un racconto fluido e un buon linguaggio stilistico – per esempio, il ricorso insistito ai primissimi piani nei momenti di maggiore tensione emotiva. Da aggiungere che, oltre ai protagonisti, tutti i personaggi sono ben caratterizzati, anche quelli secondari contribuiscono in maniera efficace a arricchire il contesto narrativo.
La portata di senso del film trascende la vicenda specifica e diventa, per esteso, una rappresentazione del carattere universale della natura umana quando si trova in un gruppo, condannata ontologicamente a dibattersi tra i sentimenti personali – che si possono anche definire egoistici – e le esigenze della comunità: l’unica possibile alternativa – quella che trascende ogni ideologia – è la forza aggregante in nome dei sentimenti autentici.
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F Pettinari è critico cinematografico