La mente invasa da un potente ronzio
recensione di Gabriella Bosco
dal numero di aprile 2016
Louis-Ferdinand Céline
LETTERE ALLE AMICHE
ed orig. 1979, a cura di Colin W. Nettelbeck
trad. dal francese di Nicola Muschitiello
pp. 257, € 15
Adelphi, Milano 2016
Grandissimo scrittore, come persona un disgraziato. Lui stesso – Louis Destouches, in arte Louis-Ferdinand Céline – ha voluto creare di sé quest’immagine e ha fatto di tutto per renderla vera. Quando nel 1937 pubblicò Bagatelles pour un massacre fu il primo a definirlo un libro “abominevolmente antisemita”. E però anche, sin dall’uscita del Voyage au bout de la nuit nel 1932, fu consapevole di aver scritto un romanzo geniale. In prima persona sapeva di essere un caso, e non deve stupire che da tre quarti di secolo continui a venir considerato tale.
Certo sconvolge leggere nella corrispondenza alle amiche ora pubblicata da Adelphi come si rivolse a N. (è l’ultima delle lettere a lei indirizzate che il volume riporta) il 21 febbraio del 1939: “Che notizie atroci!… Quando riceverà questa lettera a che punto sarà l’Europa? Stiamo sopra a un vulcano… I miei piccoli drammi non sono niente a confronto dei suoi (per adesso) ma tuttavia la tragedia è alle porte… In conseguenza del mio atteggiamento antisemita ho perso tutti i miei incarichi (Clichy, ecc.) e mi presento in tribunale l’8 marzo. Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo! Devo dire che tutta la Francia è filosemita – tranne me credo – sicché è chiaro che ho perso! Ma mi dia notizie di lei N., un saluto affettuosissimo da Louis”. Parole gravi, di un pauvre type come lo definì Malraux, espressione riferita alla sua miseria morale. N. era ebrea, suo marito era morto a Dachau pochi mesi prima.
Un’integrità distrutta dalla guerra
E Céline avrebbe continuato la rovinosa discesa agli inferi pubblicando L’école des cadavres e poi ancora Les beaux Draps, rispettivamente nel 1938 e nel 1941, altri due pamphlet violenti e infami come e più del primo. Eppure il romanziere rimane quel che era stato: straordinario, grand écrivain, continuando a citare Malraux. Inventore di una scrittura rivoluzionaria, coraggioso, profondo, sì, perfino profondamente umano.
Partiamo allora da un punto, la guerra. Céline visse sia il primo che il secondo conflitto mondiale. Nel corso dei primi mesi della Grande guerra venne ferito alla testa e la sua mente fu invasa allora da un potente ronzio che non lo avrebbe più lasciato, sordo da un orecchio per sempre. Con l’udito, Louis Destouches aveva perso nell’esperienza alienante e barbara di quella guerra, nell’orrore della trincea, la propria integrità. Ne nacque il suo alter ego, un misto di cinismo e consapevolezza che da allora in poi si aggirò tra le pagine dei suoi romanzi, o meglio dei romanzi di Céline, nome che assunse nel farsi scrittore (era il nome di sua nonna, unico affetto forte, forse, degli anni infantili). Un alter ego concepito perché si facesse carico dell’uomo, lasciando che il dolore, il male, l’odio, la violenza verbale e l’abiezione invadessero il pensiero, la vita, le scelte. In un processo di autodegradazione e d’incanaglimento insieme lucido e totalmente folle.
Da qui il caso, caso di coscienza apparentemente senza via d’uscita: come conciliare il romanziere geniale e il repellente individuo? In Francia rimane un argomento tabù, anche se i tentativi per uscire dall’impasse sono stati fatti a più riprese e da varie parti.
Lo scorso anno, quando venne all’Università di Torino, Philippe Forest – romanziere e saggista oggi tra i più apprezzati per l’originalità delle sue posizioni e la rara intensità della sua scrittura, oltre che per il valore e la bellezza delle storie che racconta – invitato proprio a parlare del “caso Céline” sul quale aveva avuto occasione di riflettere di recente, si stupì dello spazio che riservarono alle sue parole la nostra radio e la nostra stampa, con titoli espliciti e nessuna reticenza. Si stupì perché quello che Forest propose, nella lezione che fece per i nostri studenti, è un atteggiamento per ora poco condiviso. Prendeva infatti le mosse, il suo discorso, dall’iniziale pacifismo dell’autore del Voyage, dall’antimilitarismo, antinazionalismo, antipatriottismo di cui proprio il Voyage aveva testimoniato, dalla posizione anarcoide che in quelle pagine Céline aveva assunto, reduce dall’esperienza della guerra che ai suoi occhi traumatizzati non avrebbe dovuto ripetersi mai, deciso a far di tutto per comunicare al mondo il proprio rifiuto di quell’orrore. Solo dopo, negli anni trenta avanzati, quell’iniziale rivendicazione di rifiuto si era trasformato in desiderio – criminale tanto quanto suicida – di mettersi al servizio di una causa politica, quella dell’estrema destra, fascista e nazista. E fu allora che scrisse i pamphlet, quei testi in cui, ancora prima della guerra mondiale, ancora prima della Shoah, in maniera isterica e totalmente ignobile, invocò lui stesso lo sterminio degli ebrei che indicava come i responsabili della catastrofe vissuta dalla Francia e dall’Europa e come i preparatori della nuova guerra che avrebbe definitivamente distrutto il continente. “Questo fu il suo crimine”, disse Forest l’anno scorso a Torino. “Ciò che gli si rimprovera, giustamente, è di essere stato il propagandista isterico dell’ignominia antisemita in Francia, prima e durante la Seconda guerra mondiale”. Ricordò anche che negli stessi anni Louis Aragon faceva un percorso analogo per quanto opposto, avallando una politica altrettanto omicida, quella che stava conducendo Stalin in Unione Sovietica. Aragon, che all’uscita del Voyage, nel contesto dello scalpore suscitato e della polemica per il mancato Goncourt, aveva detto tutto il suo entusiasmo per quel libro, all’epoca considerato tanto in Francia quanto all’estero come di sinistra, di estrema sinistra (Forest ha pubblicato pochi mesi fa da Gallimard una poderosa biografia di Aragon, che ha preso le copertine dei quotidiani per l’acume critico di cui dà prova – Aragon, Gallimard, Paris 2015). Se ne entusiasmò al punto da proporre a Elsa Triolet di tradurlo in russo (traduzione del Voyage che venne pubblicata nel 1934, sia pure dopo aver subito una pesante censura). E cercò di portare Céline sulla strada della sinistra comunista rivoluzionaria, scontrandosi però con un atteggiamento in lui refrattario a qualsivoglia ideologia “ottimista” (senza contare che per parte sua Céline non nutriva stima per Aragon: nella corrispondenza privata lo definiva un supercon).
La grandezza del romanziere, l’assurdità del pamphlettista
Rispetto all’“eterno processo” intentato a Céline come a tutti coloro che hanno fatto scelte inaccettabili pur essendo grandi per qualche aspetto della loro esistenza, l’autore di Tutti i bambini tranne uno (Alet, 2005) come di Anche se avessi torto (Alet, 2010), il Forest che rifiuta di esprimere il suo consenso allo scandalo rappresentato dalla morte di un bambino, propone una considerazione apparentemente semplicistica e però inoppugnabile: il genio letterario che fu Céline è la stessa persona che scrisse i pamphlets. In altri termini, dice Forest, è assurdo voler dimenticare il pamphlettista per salvare il romanziere, o viceversa buttare quest’ultimo per via del pamphlettista. Entrambi sono stati. Vale però la pena di chiedersi se c’è nei romanzi di Céline una parola compassionevole, di pietà, per il male da lui conosciuto nella sua esperienza del reale – del reale bellico, ma anche della povertà, della malattia, dell’ingiustizia vissute un giorno dopo l’altro come medico nel dispensario di Clichy dove esercitava gratuitamente. E vale la pena di rispondersi che c’è. Si pensi alle pagine sulla morte di Bébert. Questo il Céline cui prestare orecchio – quello che sta dalla parte del vero – cui peraltro ha dato voce per decenni Fabrice Luchini portando sulla scena l’alter ego di Céline a incarnare Bardamu, il protagonista del Voyage: un’interpretazione che ha lasciato a bocca aperta la stessa Lucette Almanzor, la vedova dello scrittore (vivente, centoquattrenne), l’ex ballerina che visse con lui l’esilio e le conseguenze del suo collaborazionismo.
gabriella.bosco@unito.it
G Bosco insegna lingua e letteratura francese all’Università di Torino