In diretta dal Salone del libro di Parigi
di Andrea Manara
Parigi, 17 marzo 2016. L’incontro si tiene alla “scène littéraire”, uno dei grandi spazi introdotti quest’anno al nuovo salone del libro di Parigi, che d’ora in avanti si chiamerà Livre Paris. La sala è piena, l’ospite di punta di questa giornata inaugurale è Philippe Claudel, chiamato a rispondere alle domande di Marianne Payot di L’Express. Si comincia con la presentazione dell’autore. Philippe Claudel, regista, scrittore, membro dell’Académie Goncourt, è inoltre docente di Scrittura cinematografica all’università di Nancy, in Lorena, regione in cui è nato e dove vive tuttora. Ha vinto il Premio Renaudot nel 2003 per Les âmes grises (Stock, 2003 ; Le anime grigie, tradotto in italiano da Francesco Bruno, Ponte alle Grazie, 2004) e due César per “Il y a longtemps que je t’aime” (con Elsa Zylberstein et Kristin Scott Thomas, uscito in Italia con il titolo “Ti amerò sempre”). Ha girato inoltre “Tous les soleils” (“…Non ci posso credere”, 2011) con Stefano Accorsi, Neri Marcoré, Clotilde Courau e Anouk Aimée.
Le domande vertono soprattutto sull’ultimo romanzo di Claudel, “L’arbre du pays Toraja” (Stock, 2016), che prende le mosse dalla descrizione dell’albero eponimo. Nel paese dei Toraja, infatti, c’è un albero molto particolare. Alto e maestoso, si staglia nella foresta che circonda i villaggi dell’isola di Sulawesi, in Indonesia. A poche centinaia di metri dalle case, rappresenta per i Toraja la sepoltura riservata ai bambini scomparsi durante il primo mese di vita. La piccola salma, avvolta in un sudario, viene deposta in una cavità scolpita direttamente nel tronco dell’albero, e poi richiusa secondo l’usanza con della ramaglia e dei tessuti. Nel corso degli anni, lentamente, il grande corpo dell’albero si cicatrizza e chiude dentro di sé il corpicino facendolo crescere con lui, dentro la sua corteccia risaldata.
Insieme a Marianne Payot, Claudel si interroga sulla parte che la morte occupa nelle nostre vite, su come la integriamo ai nostri giorni e alle nostre occupazioni di vivi, al rapporto che abbiamo con il nostro corpo e con gli altri, al nostro lavoro, ai nostri amori. Dell’albero del paese dei Toraja il romanzo di Philippe Claudel prende la forma, oltre che il nome. Un cineasta perde il suo migliore amico e produttore, Eugène, del quale racconta, alternando altre storie tra presente e passato, tra nuovi incontri e altri “grandi assenti” della sua vita. Come l’albero del paese dei Toraja, il romanzo continua a far crescere il personaggio di Eugène, il suo corpo di parole si riempie della presenza dell’amico scomparso che sembra non voler seppellire del tutto, ma che accoglie dentro sé in pianta stabile, facendo di lui un amico eterno e ideale, e modellandosi con quello che resta di lunghe conversazioni che ormai continuano a una voce.
A Marianne Payot, Claudel racconta di come gli venga spesso chiesto se quello che scrive sia successo davvero, se i personaggi siano veri oppure inventati, insomma, se si tratti di un romanzo autobiografico oppure no (il riferimento è a Jean-Marc Roberts, scrittore, sceneggiatore e direttore della casa editrice Stock fino alla sua morte, nel 2013). La risposta è ancora una volta nel romanzo. Può succedere, come con il proprio corpo, di dimenticarsene, cioè di dimenticarsi di trovarsi dentro una storia con la quale si può vivere effettivamente in perfetta osmosi e persino nell’illusione che possa durare per sempre. O almeno finché il tempo comincia poco a poco a far sentire i suoi segni, la sua usura, imponendo la sua presenza e quindi la sua alterità; ovvero il fatto che questa come tutte le storie è il risultato di scelte, di tagli, di sogni, di rinunce, di ingrandimenti di dettagli, di operazioni di montaggio, insomma, del desiderio e del lutto che porta con sé di tutte le scelte non fatte. Un po’ come quando, guardando un western di Sergio Leone al cinema della sua città, davanti a un’inquadratura ravvicinata degli occhi dell’eroe, Philippe Claudel si rese conto per la prima volta che qualcuno aveva duvuto scegliere di ritagliare dal corpo intero dell’eroe quella porzione di sguardo, e di proiettarla poi sullo schermo ingigantita in un primo piano smisurato. Fu in quel momento, dice, che decise che sarebbe diventato un regista.
Alla fine dell’intervista mi avvicino a Claudel insieme a un gruppo di persone, e con la scusa di una dedica provo a fargli qualche domanda per saperne di più su questo rapporto tra elaborazione del lutto e scrittura letteraria : “dovere di memoria o ingiunzione all’oblio ?”, come si legge nella descrizione di un altro evento di Livre Paris che si terrà sabato 19 marzo, al quale parteciperanno Philippe Forest, Fédéric Worms e Henry Russo. La dedica di Philippe Claudel sulla mia copia de “L’arbre du pays Toraja” sembra restare in equilibrio sui termini dell’antinomia senza risolverla : “Un roman du vivant absolu”, un romanzo di vita assoluta.
A. Manara è dottore di ricerca in lingua e letteratura francese
e insegna civiltà italiana all’università Sorbonne Nouvelle