Gabriele Di Fronzo – Il grande animale

Il collezionista di addii

recensione di Marco Peano

Gabriele Di Fronzo
IL GRANDE ANIMALE
pp. 161, € 12
nottetempo, Roma 2016

Lila, protagonista insieme a Lenù della saga «L’amica geniale» di Elena Ferrante, soffre di quella che lei stessa definisce smarginatura: una sensazione episodica di scollamento dei margini (delle persone e del mondo) che la costringe a essere sempre concentrata, sempre attenta, perché «se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano».

grandeanimaleFrancesco Colloneve, voce narrante del chiaroscurale romanzo d’esordio di Gabriele Di Fronzo, Il grande animale (nottetempo 2016), permette al lettore di osservare – come in una lunga soggettiva – la realtà vista dagli occhi di qualcuno che, proprio come Lila, ha nel controllo assoluto di ciò che lo circonda la sua principale e unica ragione di esistere. Tassidermista di professione, Colloneve è in verità un collezionista di addii, un catalogatore di ultime posture: quelle in cui decide di imbalsamare di volta in volta gli animali che i clienti gli portano. Perché ha imparato che più riuscirà a suggerire un’idea di naturalezza nella posizione delle zampe, nell’apertura delle fauci, nell’arruffamento delle piume, maggiore sarà la soddisfazione di chi – consegnando un’allodola in una federa, o una taccola in una altrettanto incongrua scatola da scarpe – ha espresso un unico desiderio: «Me lo può far sembrare ancora vivo?» In questa liturgia della dissimulazione si muove quindi Colloneve, oscillando fra la tenerezza e la nevrosi di chi ha capito – e accettato – che non potrà dedicarsi ad altro. Dunque quella narrata da Di Fronzo, con una lingua che fa del nitore il suo baluardo, è la storia di una vocazione, la parabola di un individuo che ha dato fondo a ogni risorsa per raggiungere un obiettivo tanto ridicolo quanto maestoso: la vittoria della cura (intesa sia come solerzia, sia come opera palliativa) sulla morte.

L’altra spina dorsale della vicenda – e anche chi non s’intende di tassidermia può immaginare che le ossa dei piccoli animali vengano sostituite dal fil di ferro – riguarda il padre di Colloneve, infragilito da una malattia che nel condurlo alla morte gli sta fiaccando la memoria. «Tra i figli alcuni, me compreso – dice il protagonista – non si abituano ad avere a che fare con il proprio padre, e passano invece tutta la loro vita a indagare l’unico modo che esista per vivere senza». Il rapporto tra Francesco Colloneve e il genitore è lo stesso che il primo ha con il suo lavoro: ricorre a una strategia, direbbe Ferrante, per arginare la smarginatura. Ma in questo sforzo teso a imprimere un’immortalità provvisoria all’oggetto amato – sia esso un gatto, un padre o un ricordo – il narratore scoprirà a sue spese quanto il malleabile fil di ferro possa attorcigliarsi fino a ingabbiare chi lo stava maneggiando.

Marco Peano è nato a Torino nel 1979. Si occupa di narrativa italiana per la casa editrice Einaudi. “L’invenzione della madre” (minimum fax 2015, Premio Volponi Opera prima, Premio Libro dell’Anno di Fahrenheit) è il suo romanzo d’esordio.