La proprietà intellettuale nell’era digitale
intervista a Marco Ricolfi di Luisa Gerini
Quali sono i passi che sono stati compiuti per cercare di arrivare all’equilibrio tra diritto d’autore e altri diritti, particolarmente sentiti dalla comunità degli utilizzatori della rete, come la libertà di espressione e di accesso all’informazione?
Il diritto d’autore nasce in tempi relativamente recenti: con lo Statuto della “buona” regina Anna, buona, per l’appunto, per avere dato una risposta alle istanze degli scrittori e degli editori di protezione delle loro opere attraverso il copyright. La ricerca del bilanciamento fra interessi dei creatori e delle imprese che li affiancano e quelli del pubblico e della società, che spingono per un accesso ampio, è sempre stato all’ordine del giorno.
L’idea che in Europa ed in Francia si sia data priorità ai creatori, intesi come portatori di diritti naturali e fondamentali, mentre nel mondo anglosassone si sarebbero privilegiate le ragioni di accesso e di pubblico interesse è ampiamente diffusa ma non del tutto esatta (come ha mostrato una grande studiosa americana: J.C. GINSBURG, A Tale of Two Copyrights: Literary Property in Revolutionary France and America, in 64 Tulane Law Review, 1990, 991 ss.). Si tratta di equilibri mobili. All’inizio la durata del diritto d’autore era di 14 anni; oggi di 70 anni dalla morte del creatore. Questo è solo un sintomo della generale tendenza ad allungare ed estendere la protezione. È sembrato che il pendolo si sia mosso nella direzione opposta con il digitale: diversamente che nel mondo dell’analogico, le copie di qualsiasi opera, sia essa musica, immagini o testo, sono tendenzialmente perfette, infinite e senza costo e, soprattutto, è diventato facile diffonderle. E le reti fanno da moltiplicatore.
Questo sviluppo sembrerebbe avere portato ad un deperimento della protezione. Per la verità in ambiente digitale si è creata una forbice: fra le opere troppo poco protette, almeno in teoria, e quelle troppo protette. Oggi, più del 95% delle persone che creano ed immettono in rete non sono creatori professionisti. Che si tratti del gruppo musicale alle prime armi, della mamma che mette su You tube un episodio di vita di una bambina, o di uno studioso che scrive un blog, l’interesse è alla diffusione dell’opera, non ad ottenere proventi. Questi interessano invece ai creatori professionisti, che, diversamente dai soggetti che ho menzionato, vivono dei redditi generati dalle loro opere. Se i creatori professionisti, spesso non a torto, avvertono la rete come una minaccia per il modo in cui sono stati abituati a guadagnare, i creatori non professionisti si lamentano dell’opposto: vorrebbero che le loro opere circolassero più liberamente possibile e fossero lette, ascoltate e, perché no, discusse e criticate da un pubblico più ampio.
Molti di noi hanno suggerito di sdoppiare il copyright. Di creare un “doppio binario”. Un diritto d’autore superprotetto, non solo in teoria ma anche nella pratica, per i professionisti; ed un diritto d’autore minimalista per i non professionisti. L’idea si sta facendo strada: il passo da compiere è la creazione di un registro digitale globale, dove chi vuole la protezione tradizionale deve registrare la propria opera. Ho proposto quest’idea quasi dieci anni fa in un incontro a Lovanio: lo slogan era quello di creare un copyright 2.0 accanto al vecchio diritto d’autore, 1.0.
Quali passi restano da fare secondo lei? Potrebbe illustrarci le principali sfide e questioni che saranno affrontate nella WIPO Conference on the Global Digital Content Market il prossimo aprile a Ginevra?
Non mi pare che la conferenza in questione vada molto oltre ad una presa di atto delle questioni sul tappeto. Tuttavia, nel suo discorso a Melbourne di qualche anno fa, il Direttore generale del WIPO ha fatto una dichiarazione secondo me importante: se c’è da fare un registro digitale globale delle opere protette dal copyright, ha detto, noi siamo pronti.
Il fatto è che, per arrivarci, bisognerebbe cambiare la veneranda Convenzione di Unione di Berna, che è del 1886; e questo non è facile perché, dato che questa è stata “incorporata” in uno degli accordi istitutivi della Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO con l’acronimo inglese), occorre l’accordo di tutti i 162 Stati che ne sono membri. L’Unione europea potrebbe prendere la leadership del processo; ma in questo momento mi pare che non abbia forza progettuale sufficiente e soprattutto altri problemi da affrontare.
E la libertà di espressione?
Questo è un tema che ho fin qui lasciato da parte. Fra diritto d’autore e libertà di espressione vi è in effetti sovente un conflitto. Da che mondo e mondo, non si crea dal nulla; le opere del passato sono la base per la creazione del presente. Quando si parla delle spalle dei giganti, si vuol dire che i nuovi creatori debbono essere in grado di lavorare a partire dalla cultura e dai materiali che il passato ci consegna. Un tempo si diceva: negli USA è più facile, perché è riconosciuto il fair use, il diritto di libera utilizzazione delle opere altrui in contesti nuovi, a condizione che si eviti il parassitismo. In Europa, invece, le limitazioni al diritto d’autore sono viste come ipotesi eccezionali e tassative. Alcuni (fra cui L. Lessig, Remix. Making Art and Commerce Thrive in the Hybrid Economy, The Penguin Press, 2008) dicono che la soluzione americana ed europea dovrebbero essere combinate per avere la somma dei vantaggi della flessibilità USA e della certezza europea.
Però la multimedialità e la natura partecipativa del web hanno favorito un processo di “appropriazione” di opere dell’ingegno di altri. Lo ritiene un pericolo, anche semplicemente di banalizzazione, o un’opportunità di stimolo alla creatività?
Forse bisogna pensare, di nuovo, alla proposta del “doppio binario” che ricordavo prima. Se si distingue da un lato fra le opere dei “professionisti”, debitamente inserite in un registro globale, e dall’altro tutte le altre, allora vi è ragione di opporsi con mezzi adeguati all’appropriazione delle opere del primo tipo. Dobbiamo però tenere presente che oggi, per lo studio e la formazione dei “nativi digitali”, occorre comunque un’ampia possibilità di accesso non solo a testi scritti, ma ad immagini, video, suoni e programmi. Se non vi è un repertorio vastissimo di materiali digitali disponibili, le nuove generazioni non saranno in grado di apprendere con la stessa libertà di cui abbiamo goduto noi: in un’epoca in cui la parola scritta aveva primaria importanza, ci siamo potuti formare senza ostacoli su testi per lo più classici e quindi in pubblico dominio.
La capillarità e la smaterializzazione del web hanno prodotto un’accelerazione mettendo in contatto diretto il creatore e il suo pubblico, rendendo marginale il ruolo degli intermediari. In che misura il legislatore tiene conto dell’impatto sull’industria culturale -come quella dell’editoria e della distribuzione- di questa nuova realtà? Quali saranno le nuove frontiere di sviluppo economico?
Partendo dal fondo, non posso che confessare la mia ignoranza: non ho la sfera di cristallo. Posso però dire che i vecchi intermediari, gli editori, gli editori musicali e le etichette, i produttori cinematografici abbiano ancor molto da dire, insieme con i creatori professionisti; e dovrebbero quindi abbracciare l’idea del “doppio binario”.
Non dobbiamo però dimenticare che ci sono poi altri, nuovi intermediari, potentissimi: le piattaforme. Pensiamo a Facebook, a Google, ma anche ad Amazon ed ad Apple; ed ai loro concorrenti cinesi, Alibaba, Tencent, Baidu e così via. Le piattaforme acquistano diritti su tutte le opere create dai loro utenti; ma soprattutto sui big data da loro generati. Hanno acquisito un potere economico mai visto nella storia; e lo hanno fatto di concerto con i governi dei due paesi che li ospitano, gli USA e la Cina. Le implicazioni di questo assetto sono enormi (v. ad es. M. Ford, Rise of the Robots: Technology and the Threat of a Jobless Future, Basic Books, 2015); e vanno ben al di là del tema del diritto d’autore.
M Ricolfi insegna diritto industriale all’Università di Torino