Doloroso amore per la vita
recensione di Ennio Ranaboldo
dal numero di febbraio 2016
Lucia Berlin
LA DONNA CHE SCRIVEVA RACCONTI
ed. orig. 2015, trad. dall’inglese di Federica Aceto
pp. 432, € 18.50
Bollati Boringhieri, Torino 2016
Negli Stati Uniti, la pubblicazione nel 2015 di A Manual for Cleaning Women, la raccolta che ripropone molti tra i migliori racconti di Lucia Berlin per i tipi della prestigiosa FSG, ha suscitato una reazione entusiasta da parte di critica e pubblico.
Una partecipata, seppure tardiva, promozione all’empireo delle grandi scrittrici del nostro tempo. E la connotazione di genere non è casuale, perché donne, soprattutto negli ultimi decenni, sono state le maestre assolute della forma breve, almeno in Nord America: si pensi ad Alice Munro, Edith Pearlman, Joy Williams. Non che Berlin fosse una totale sconosciuta fino a ieri, anzi, ma il volume relativamente modesto della sua produzione (un’ottantina di racconti in tutto), le uscite in riviste letterarie a ridotta circolazione, e le raccolte curate da piccole editrici ne avevano appena mantenuta viva la fama presso una nicchia di lettori, molto fortunati e affezionati. Come certamente lo diventeranno adesso quelli italiani.
Lucia Berlin, nata in Alaska nel 1936 e morta in California nel 2004, visse con un’intensità tale non solo da riempire al colmo un’esistenza, ma anche da generare un giacimento inesauribile di esperienze a cui la scrittrice attingerà copiosamente per tutta la sua carriera: figlia di un dirigente dell’industria mineraria, con una famiglia piuttosto disfunzionale e sempre in movimento, passò dall’agio quasi aristocratico degli anni in Cile a una vita stentata e marginale ad Oakland, nella San Francisco Bay Area. Aveva avuto in sorte una madre terribile e, come lei stessa, tormentata da una brutale dipendenza dall’alcol. Era bellissima, Lucia Berlin, ma anche sofferente a causa di una grave scoliosi che l’afflisse fino alla morte. Si sposò tre volte, generò quattro figli che allevò perlopiù da sola, ebbe una serie di mestieri precari, faticando sempre per la propria indipendenza e sopravvivenza: lavorò come centralinista, donna delle pulizie, assistente in un ambulatorio medico, ma fu anche, in tempi più recenti e ormai disintossicati, un’amatissima insegnante in diverse scuole e presso la University of Colorado. E poi la vita randagia e libera sulle due coste americane, gli amori e la frequentazione di molti artisti e musicisti di rango. E, naturalmente, la scrittura, il mai disatteso laboratorio di distillazione del proprio vissuto nei racconti che veniva scrivendo.
Talento immaginifico e trasformativo
Lucia Berlin sperimentò, nella realtà e sulla pagina, il meglio e il peggio del vivere americano della modernità, e del Novecento in particolare. Soprattutto, la mobilità e la mutevolezza continue di quel paese e di quella società: e raccontò le opportunità e i devastanti fallimenti, la solidarietà tra i miserabili e l’emarginazione più brutale, i pregiudizi di classe e di razza, l’amore disinteressato per i più vulnerabili e l’incuria; e anche la violenza della vita di strada e di confine, la schiavitù della dipendenza da droga e da alcol, e lo strazio delle esistenze più alienate. Racconti davvero di vita, insomma, che il suo talento immaginifico e trasformativo, il suo naturale orecchio per il linguaggio della strada, delle corsie di ospedale, la voce della coscienza dei derelitti, rendono così pregnanti e veritieri, salvaguardandoli da ogni mimetismo realistico e dal sentimentalismo. Dirà uno dei suoi personaggi: “Esagero molto, e confondo realtà e finzione, ma davvero non mento mai”. Lo stesso si può apprezzare nella scrittrice.
Ci sono, nella raccolta, storie dalla robusta vena comica, quasi alla Mark Twain, e altre del tutto tragiche, dove droga e spaccio e sangue occupano la scena; altre ancora sono incentrate sugli ultimi, malati e migranti, segnati da straniamento e abbandono. E non mancano le cronache del più classico dei conflitti, e degli antagonismi famigliari, il rapporto tra una madre crudele e distratta e una figlia ribelle per puro istinto di sopravvivenza. Ma anche – e alcuni di questi racconti sono tematicamente legati tra loro – la struggente relazione tra l’esplicito alter ego della Berlin e una sorella morente, o quella con un figlio stravolto dalla deriva etilica della propria madre.
E non è per caso che ci sia sempre qualcosa di felicemente materno, e profondamente compassionevole, in Berlin, anche o forse soprattutto quando i suoi personaggi restano esclusi da ogni possibile salvezza. Come se il dolore, la fatica e la pena vissute in prima persona sciogliessero, nella creazione narrativa, ogni infingimento, staccando dalla pagina personaggi difficilmente dimenticabili: ognuno di loro, alla fine, intento ad apprendere, o a inseguire, the labor of love.
ennioranaboldo@gmail.com
E Ranaboldo è saggista