La stranezza che ho nella testa
Intervista a Orhan Pamuk di Santina Mobiglia
dal numero di febbraio 2016
Il suo romanzo La stranezza che ho nella testa è uno straordinario affresco storico-sociale dei cambiamenti avvenuti a Istanbul negli ultimi cinquant’anni. La città, come sempre nei suoi libri, è il cuore della storia, ma la novità qui è il punto di vista delle classi sociali basse, dei migranti dalle campagne ed è un punto di vista corale, polifonico. Le vicende dei personaggi sono liberamente create, ma attraverso una ricostruzione molto precisa e documentata di percorsi, ambienti e dinamiche sociali, la cui veridicità è suggestivamente evocata in appendice da apparati inconsueti in un romanzo (indice dei nomi, cronologia, foto d’epoca). Come interroga, nel suo lavoro di scrittore, l’ambiguo rapporto tra realtà e immaginazione?
La mia idea è che, più un romanzo si fonda su un lavoro di documentazione, più abbia bisogno della fantasia dello scrittore. I miei romanzi sono sempre basati su una grande ricerca, ed è un lavoro che a me piace moltissimo. Ad esempio: Il mio nome è Rosso poggia in larga misura su quella che possiamo definire in senso stretto la pittura islamica del XV-XVI secolo e sulla letteratura islamica classica dell’India, della Persia e dell’Impero ottomano. Questo richiedeva una ricerca. Ma ciò che rende leggibile Il mio nome è Rosso, e di cui sono molto orgoglioso, è il modo in cui, con la mia fantasia e immaginazione di scrittore, ho trattato queste fonti. Per il mio ultimo romanzo, gran parte della ricerca ha riguardato la vita quotidiana di un venditore ambulante: io ho mangiato street food in tutta la mia vita e soprattutto nell’infanzia anche se, venendo da una famiglia delle classi medio-alte, mia madre me lo proibiva, e ciò naturalmente lo rendeva ancora più attraente. Ma qui dovevo entrare nel dettaglio della vita di questi venditori, ex-contadini che emigravano dalle zone povere dell’Anatolia per venire a Istanbul, e per questo sono andato nelle strade a fare molte conversazioni, interviste con loro e anche con altre persone che mi hanno aiutato, perché è stato un lavoro di ricerca molto approfondito. Il potere della forma-romanzo è quello di muoversi su una linea sempre molto ambigua tra immaginazione letteraria e realtà, tra fantasia e dati fattuali. E di nuovo tutte le informazioni quasi enciclopediche sulla vita di questo tipo di persone che ho tratto dalla ricerca, dagli studi e dai colloqui si sono intrecciate alla mia immaginazione per arrivare così vicino alla mente del mio eroe, il protagonista del romanzo…
… Mevlut, un venditore di boza – bevanda tradizionale dal leggero e sottaciuto tasso alcolico – che va in giro per le strade e le case della città…
Noto una tendenza, nel mio paese, la Turchia, ma più in generale nelle cerchie accademiche, dei lettori, dei giornalisti per cui, se un libro ha al centro solo personaggi dei ceti inferiori, migranti di cui si rappresentano le problematiche sociali e politiche, le difficoltà economiche, da molti critici viene etichettato come un reportage, un libro giornalistico. Questo non solo non è vero, ma anche molto offensivo: cosa sottende questo tipo di ragionamento? Il fatto che i ceti inferiori non meritino che il giornalismo mentre quelli medio-alti meritano la finezza umanistica e letteraria. Il mio libro va contro questo pregiudizio. Io ho messo tutte le mie energie per cercare di restituire tutta l’umanità di un personaggio povero così come potevano averlo fatto, all’epoca, Shakespeare o Dostoevskij. Naturalmente io non pretendo di essere alla loro altezza, ma questo è stato il mio sforzo, proprio per contrastare il pregiudizio che questi personaggi richiedano solo un registro da cronista o da reporter, che solo di questo siano degni e non di altro. A un amico che mi chiedeva: “Che fai di questi tempi, che stai scrivendo?”, quando gli risposi: “Sto scrivendo un romanzo senza ceti medi” (tranne verso la fine, perché una parte della famiglia in effetti si arricchisce), lui, un editor, mi disse: “Ma stai scherzando? un romanzo dove non c’è un personaggio del ceto medio?”. Dal suo punto di vista aveva ragione, perché c’è una tradizione del romanzo in cui i personaggi delle classi inferiori sono visti con un atteggiamento di commiserazione che è quello dell’intellettuale borghese, fino ad arrivare al melodramma. Io invece ho voluto restituire realisticamente tutta la forza e tutte le sfaccettature delle vite di queste persone, senza melodrammi e senza spargimenti di lacrime.
Nel romanzo siamo immessi fin dall’inizio nello snodo cruciale della trama (lo scambio di persona della giovane di cui si innamora il protagonista e con cui si sposerà) e l’attenzione del lettore si concentra, più che sul plot, sulla psicologia e sui sentimenti dei personaggi nel mutare dei contesti. Nella mente di Mevlut, alla ricerca di un difficile equilibrio fra mondo interiore e esteriore, è ricorrente un fantasticare sulla “stranezza”, che dà il titolo al romanzo. Qual è il suo significato?
Il titolo è tratto da un poema autobiografico di Wordsworth (Il preludio) che fu scritto a Cambridge e nulla ha a che fare con il mio povero Mevlut, il mio protagonista, ma ci introduce a quella che negli ambienti accademici inglesi viene chiamata “poesia” e “fantasia” romantica: è un certo modo di focalizzare l’immaginazione umana su un tema, come ad esempio l’amore, anche in assenza di precisi riferimenti visivi a un contesto. Rispetto invece alla storia d’amore di questo libro, io sostengo che l’immaginazione debba per forza concentrarsi su piccoli dettagli, perché, specialmente nei paesi non occidentali, musulmani, uomini e donne non stanno mai da soli, vicini, per molto tempo, e quindi una componente cruciale dell’amore, inteso romanticamente ma in questo contesto, diventa il lavorare di fantasia, d’immaginazione, il mettere in gioco tutto il possibile per far nascere una storia d’amore e per formare una famiglia. Quindi l’immaginazione serve a uno scopo ben più ampio di quello di scrivere un componimento poetico. Nel libro si racconta di un uomo che fugge con una ragazza di cui si è innamorato, o crede di essersi innamorato dopo averla vista di lontano soltanto per dieci secondi, e passa tre anni della sua vita a nutrire, a creare o immaginare questo amore attraverso le lettere… e si vede imbrogliato, ingannato, fuorviato perché per la fuga romantica gli propinano una ragazza sbagliata, ma riuscirà ugualmente ad essere felice con lei. Quindi la “stranezza” che c’è nella mente del mio Mevlut, e nel mio romanzo, è tutta legata a questo, al fatto che il potere, la forza della nostra immaginazione proviene precisamente da noi, non da agenti esterni. La stranezza di Mevlut ha a che fare con la sua immaginazione, con la sua capacità di fantasticare e di immettere con forza l’immaginazione nella sua vita.
“Mevlut si rifiutava di scegliere fra questi due mondi”, lei scrive alla fine del romanzo: nell’esplorare le strade vecchie e nuove della città, esplorava anche le zone più intime e profonde della propria mente facendo emergere “la seconda persona nascosta dentro di lui”. Sono esattamente le parole con cui descrive, nel discorso del Nobel (La valigia di mio padre, Einaudi 2007), il suo lavoro di scrittore, che ha bisogno di solitudine per scoprire la “seconda persona” che è in lui. Come vede il rapporto tra queste diverse figure del “doppio”?
Il tema del “doppio”, dell’altro, della “seconda persona”, è evocato anche nel Castello bianco e nel Libro nero: è un tema che amo molto e che compare nei miei precedenti romanzi. Ma voglio precisare: Mevlut non è il mio doppio. Quello che ho tentato di fare in questo libro è di rendere con il massimo possibile di energia e finezza, e per cinquecento pagine, l’umanità completa di questo personaggio. Perché, se c’è un dovere morale del romanziere, è quello di identificarsi con i suoi personaggi come con persone che non sono lui: quindi acquisire il punto di vista dell’altro. Se c’è un dovere politico o morale del romanziere, non è certo sul terreno della politica nel senso dei partiti o delle elezioni, quelle sono scelte che facciamo come cittadini, ma come scrittori siamo moralisti, e io penso di esserlo, lo rivendico, perché cerco di guardare il mondo con gli occhi di altre persone, di vederlo e rappresentarlo il più chiaramente possibile dal punto di vista di qualcuno che non sono io. E questo viene fatto sotto tante voci: “genere” (sono un uomo e mi metto nei panni di una donna), “classe” (appartengo alle classi medio-alte e mi metto nei panni delle classi inferiori), e così via per le differenze geografiche, culturali, religiose. Ecco, se c’è un dovere dello scrittore, è quello di trasgredire questi confini. Rispetto chi lo fa, e mi rispetto se riesco a farlo anch’io: è il dovere di cancellare, abbattere queste paratie stagne, le linee divisorie troppo nette. Nel momento in cui esercita la sua arte, il romanziere fa qualcosa che è intrinsecamente morale e politico, non perché vota o invita a votare per questo o per quello, ma proprio perché cerca di calarsi nella vita, nelle vite degli altri.
Nella sua ingenua e fiduciosa scoperta del mondo e nella capacità di adattarvisi, Mevlut ha qualcosa di un Candide con una vena di malinconia che è anche profondità di sguardo e fa pensare a quella peculiare tristezza (hüzün) di Istanbul di cui lei parla nel memoir dedicato alla città. Non è proprio in questa ingenua ma profonda sensibilità che si esprime l’intima moralità del personaggio?
Mi colpisce e mi fa molto piacere che lei abbia citato il Candide di Voltaire. È una buona chiave di lettura. Naturalmente quella di Voltaire è una ingenuità calcolata, che ha qualcosa a che fare con il mio povero Mevlut, ma il suo è un conte philosophique, il mio cerca di essere un romanzo epico. C’è tutta una gamma di ingenuità che io cerco di coprire, e ci sono molte influenze di scrittori del passato nel mio personaggio: il buon soldato Sc’vèik di Hašek, che è un opportunista ingenuo; Marcovaldo di Italo Calvino, che è piuttosto un ingenuo filosofico; il principe Myškin dell’Idiota di Dostoevskij, che è un ingenuo molto complesso, e ancora Julien Sorel del Rosso e il nero di Stendhal, il provinciale ingenuo e ambizioso per il quale Parigi è quello che è Istanbul per Mevlut, e ancora certi personaggi dediti a far quattrini in tanti racconti di Balzac. Insomma c’è tutta una gamma, un ventaglio di ingenuità… Ma come funziona nella letteratura? In letteratura diventa una forma di scaltrezza, perché attraverso il personaggio ingenuo e la sua ingenuità riusciamo a mostrare quanto sono tremendi quelli che ingenui non sono. E lo vediamo sul piano della vita familiare: l’ingenuità di Mevlut nella sua storia amorosa ci fa vedere quanto sono tremendi quelli che non sono ingenui e con le donne si comportano come sappiamo. Così la sua ingenuità negli affari ci fa vedere quanto sono tremendi e rapaci quelli che non sono ingenui in economia, e in politica… Ma debbo dire che tra i tanti romanzieri che hanno influenzato questo personaggio, c’è soprattutto molto Pamuk.
Come in tutti i suoi romanzi, la società turca è anche qui indagata nel difficile equilibrio tra modernità e tradizione, ma è un tema che qui viene affrontato soprattutto nei rapporti tra uomini e donne. Il romanzo è anche una saga familiare di tre generazioni, una storia di matrimoni, all’interno del costume dei matrimoni combinati cui sembra siano soprattutto i personaggi femminili a sottrarsi. L’alternativa prevalente è ancora oggi il rimedio della fuga-rapimento?
Mi piace molto leggere e seguire, e lo faccio con costanza, i rapporti dell’Istituto nazionale di statistica della Turchia. Già in Neve tutti gli eventi erano scatenati dalle statistiche sui tassi di suicidi delle donne a Kars, più alti della media turca. Lì gli eventi partivano proprio da questa considerazione, e veniva spedito un reporter investigativo che diventava poi il mio eroe. Anche ora, proprio prima di venire in Italia, ho letto un rapporto dell’Istituto di statistica che dice che il 54 per cento dei matrimoni in Turchia sono combinati. Si tende a pensare che sia per via dell’islam, io non credo. A me sembra un fatto che accomuna tutti i paesi non occidentali dove uomini e donne non hanno abbastanza luoghi e occasioni per passare del tempo insieme, per cui, ovunque succeda questo, più del 50 per cento dei matrimoni sono sostanzialmente decisi dalle famiglie. Questo tema è al centro del dibattito culturale sulla modernità, nel mio paese e non soltanto. E da un pezzo, perché se ne è scritto molto, a partire dalla fine dell’Ottocento. Il tema dei matrimoni combinati è un aspetto importante proprio della modernizzazione in Turchia e tutti quelli che hanno scritto nel periodo post-ottomano lo hanno affrontato. Ma il mio povero Mevlut è molto più bravo, più umano e coraggioso di tanti altri, perché riesce a fuggire con l’amata (anche se c’è, diciamolo pure, l’aiuto di un suo familiare), ed è molto importante il modo in cui le donne, come diceva lei, vivono tutta questa retorica romantica della fuga d’amore: perché la tradizione pone tali limitazioni che occorre reagire con un surplus di amore romantico e di fantasia per riuscire a mettere in piedi una famiglia, visto che non ci si riesce a conoscere, a frequentare… Ma che cosa succede, dopo il matrimonio solo in parte romantico e non combinato, ai nostri sposi? Di questo sono veramente contento, quasi un po’ orgoglioso, nel senso che Mevlut ha una vita amorosa e matrimoniale veramente felice grazie a lui stesso. Nonostante la tradizione sia orribile e disumana, io guardo all’umanità dei miei personaggi e li vedo voler sopravvivere e restare buoni nell’intimo. E Mevlut Karataş è nato in questa tradizione bruttissima, offensiva, forse pure la riprodurrà, ma ci sono momenti bellissimi nel suo matrimonio: è un matrimonio riuscito, anche se lui non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, e lo vediamo sapere esprimere tutta la sua umanità così come vediamo l’umanità di sua moglie Rayiha, che cucina tutto quanto, si occupa delle figlie, mentre il marito se ne va vagabondando per le strade a vendere la sua roba pur di guardare nelle case delle persone, e forse dentro qualcosa di più intimo ancora delle case. E con lui vediamo fino in fondo, in tutti i suoi particolari, Istanbul, quella delle baracche e dei grattacieli sorti sulle colline dove lui vive ma anche quella luccicante che ha spazzato via i suoi vecchi quartieri greci, armeni, ebraici, e scopriamo le ambizioni impazienti dei nuovi ricchi, le speculazioni illegali e perfino criminali. Una città che ingloba ogni anno 800.000 nuovi abitanti provenienti dalle campagne e ha raggiunto, a quanto pare, i sedici milioni: oggi un microcosmo dell’intero paese.
La stranezza che ho nella testa
Il sottotitolo del nuovo e atteso romanzo di Pamuk sintetizza la trama come in un manifesto pubblicitario: “La vita, le avventure, i sogni, gli amici e i nemici di Mevlut Karataş, venditore di boza, nonché una panoramica della vita di Istanbul tra il 1969 e il 2012, raccontata dal punto di vista dei suoi cittadini”. Il lettore viene così introdotto a una sorta di Bildungsroman, costruito intorno a un venditore ambulante e a Istanbul, invasa e profondamente trasformata da lui e da altri milioni come lui nel corso dei quarantatré anni narrati.
La recensione di Ayşe Saraçgil sul numero di febbraio 2016.