L’invenzione artificiale di una natura prescrittiva
Intervista a Stefano Rodotà di Michele Spanò
dal numero di febbraio 2016
All’inizio dell’anno è apparso su “La Repubblica” un suo articolo dedicato ai diritti civili e all’arretratezza del dibattito italiano, seguito, solo poche pagine dopo, da un’inchiesta, tratta da “The Guardian”, in cui si documentavano i rapidi cambiamenti che hanno interessato la percezione sociale, nella popolazione inglese compresa tra i 18 e i 30 anni, di che cos’è l’amore, la preferenza o l’orientamento sessuale e, soprattutto, l’avvenuta separazione tra preferenza e identità sessuale, facilmente ricomprese in un’idea e una pratica fluida delle relazioni affettive e/o sessuali. L’accostamento è parso particolarmente interessante. Potremo partire da qui per introdurre i temi che sono al centro del suo nuovo libro.
Faccio un passo indietro per spiegare perché ho scritto questo libro e perché l’ho scritto in questo modo. Ho partecipato su invito di Remo Bodei al Festival della Filosofia di Modena l’anno in cui fu dedicato all’amore. Ho dunque preparato un discorso che poi è stato inserito in una brochure a cui sono seguiti inviti pressanti dalla mia casa editrice affinché ne traessi un libro. Non credevo di essere in grado di scriverlo, fino a che mi sono letteralmente chiuso in casa per quasi due mesi immergendomi totalmente nello studio. A posteriori lo vedo come un capitolo aggiuntivo di un libro che ho scritto nel 2006, La vita e le regole (Feltrinelli), nel quale questo punto non era assolutamente affrontato: l’amore è la frontiera estrema del rapporto tra la vita e le regole. Alcuni amici giuristi obiettarono allora che avrei dovuto intitolarlo Le regole e la vita, e altri mi fecero notare che il libro era pieno di citazioni di poeti, registi e scrittori, ma non era facile trovare un giurista. Entrambe sono state scelte meditate e consapevoli. Ho ristretto il campo perché è la relazione affettiva o la relazione amorosa in quanto tale che ho scelto di indagare, facendo anche una forzatura perché le relazioni familiari genitori-figli compaiono nel libro, ma sono tutto sommato marginali. Scrivendo mi rendevo conto che c’è questa separazione che si è venuta accentuando tra la relazione in senso stretto amorosa e la maniera in cui, soprattutto tra le persone più giovani, viene percepito e praticato il rapporto con gli altri con connotazioni, anche in ambito sessuale, molto modificate. Nel libro insisto proprio su questo fatto perché è quello che mette a nudo i limiti del diritto: se mi concentro sul rapporto amoroso in quanto tale è chiaro che lo spazio per il diritto si riduce enormemente. Ad altre regole e altri comportamenti (penso per esempio al “poliamore”, una formula che trova sempre più spazio nella discussione, e che recentissimamente in Brasile ha avuto anche qualche riconoscimento giuridico) mi sono accostato con molta prudenza, perché tutto sommato per il diritto sono relativamente indifferenti ed è bene che lo siano. C’è molto margine di libertà nella gestione di sé, e il diritto non se ne occupa se non quando i comportamenti sconfinano nello sfruttamento dell’altro o nella sua aggressione.
Ho scelto di isolare e di concentrarmi sul nucleo più intimo e più coinvolgente dell’affettività degli individui per studiare in che modo l’amore fa i conti con il diritto, e tramite il diritto come fa i conti con la politica e con l’organizzazione sociale: questa è stata la mia linea d’indagine, cosa che dichiaro all’inizio dell’ultimo capitolo. Non sono rimasto sorpreso dall’inchiesta del “Guardian”; se soltanto l’avessi letta prima avrei fatto qualche variazione al libro.
Ci sono altre cose avvenute o lette dopo la pubblicazione che avrebbe voluto inserire?
Nel libro c’è la discussione di un punto che è apparentemente tecnico, e lo diventa sostanzialmente: se il fatto che la Costituzione non abbia parlato delle unioni tra le persone dello stesso sesso debba o no essere considerato un vincolo; oppure una deliberata omissione, che quindi lascia aperto tutto lo spazio possibile; oppure ancora se non sia soprattutto il risultato di un clima culturale, che come tale non può essere poi adottato quale parametro giuridico. Dopo aver scritto questo libro mi è capitato di rileggere un libro di Manuel Azaña (giurista e uomo politico spagnolo, presidente della Repubblica dal 1936 al 1939), scritto a Parigi, La veglia a Benicarló, una pièce teatrale in cui racconta, nelle sue varie manifestazioni, la Spagna di quel momento. Mi è venuto in mente perché ho riletto la prefazione di Leonardo Sciascia alla traduzione italiana fatta da Einaudi nel 1967. Sciascia, nel parlare del ruolo politico di oppositore al regime di Azaña, cita anche la sua “eccentricità sessuale”. Sciascia, che non aveva nessuna intenzione di imbellettare il discorso, non riesce a scrivere, nel 1967, “l’omosessualità di Azaña”. Figuriamoci se nel 1946-47, quando il clima era completamente diverso, si sarebbe potuto. È chiaro che c’era un rimosso (l’impossibilità di pronunciare la parola), ma il fatto (l’omissione) non aveva valore normativo, era semplicemente il riflesso del modo in cui la società si poneva di fronte a questi problemi. Il giurista dovrebbe dire: “Quando la società nomina con la parola giusta qualcosa, anche il diritto ne deve prendere atto”. È complicato immergersi in questo mondo perché il diritto o è una specie di spettatore compiacente oppure, come è accaduto e continua ad accadere, è lo strumento attraverso il quale qualcuno si impadronisce delle relazioni affettive. In realtà si impadronisce non della persona in quanto tale, ma della persona in quanto in relazione intima con un’altra, quindi si impadronisce della coppia.
L’amore è dunque il luogo in cui vita e regole urtano in modo speciale. In cui la soggettività esibisce i suoi tratti più ingovernabili, che il diritto fatica a “addomesticare”. Ma lei sostiene che questo “affanno” del diritto dovrebbe tradursi in una forma di continenza, in una paradossale autolimitazione nel porre limiti. Non si tratta tuttavia di un’ambivalenza, quella tra regolazione e trasformazione, che il diritto sconta quasi strutturalmente? Yan Thomas definiva il diritto una “tecnica di denaturazione del mondo”; una formula che ben si accorda con la sua immagine “artificialista” del diritto, lontana dalla tradizione, dalla natura, dal conformismo…
Io mi sono sempre messo al riparo di una citazione di Montaigne, che mi ha colpito sempre e che ho messo in esergo a La vita e le regole: “La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme”; dopo averla letta, non in giovanissima età per fortuna, mi sono chiesto: “Ma allora il diritto che cosa ci sta a fare?”. Perché il diritto è esattamente l’opposto di quello che dice Montaigne, fatto come è di regolarità e uniformità. Qui nasce una frizione che non è componibile se si mette il diritto sullo stesso piano della vita, e non se ne riconosce invece l’assoluta artificialità. Conosco e apprezzo la formula di Yan Thomas ma preferisco parlare di “artificio giuridico”, perché è questo il diritto: artificio. E del resto non c’è stato nulla di più artificiale del diritto naturale. Ci sono naturalmente molti gradi di artificio: ci sono situazioni in cui la necessità di formalizzare è assolutamente necessaria e situazioni in cui l’artificio snatura l’oggetto della sua attenzione: questo mi pare il caso dell’amore. La natura non c’entra, è una falsificazione che proprio non accetto.
Credo che guardare al diritto come artificio di fronte alla vita sia indispensabile. Aldo Schiavone nel suo libro Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Einaudi 2005) ha parlato dell’invenzione del diritto da parte dei romani e il suo è tutto un libro sull’artificio: un artificio che per secoli ha informato di sé la storia e i costumi e che continua a essere un riferimento. Da questo dato non possiamo svincolarci.
Solo attraverso un’invenzione giuridica, quindi artificiale, di dati di natura si può arrivare ad affermare che c’è qualcosa di naturale che preclude l’accesso al matrimonio egualitario da parte delle coppie dello stesso sesso. Oppure, come fa la sentenza della Corte Costituzionale, si parla di “tradizioni ultramillenarie” senza rendersi conto che questa è una storia interna a un pezzo di mondo, e anche se fosse una tradizione ultramillenaria sarebbe un’invenzione ultramillenaria che si vuole trasformare in dato normativo.
Nulla di tutto ciò proviene dalla natura, basta fare il giro dell’angolo per scoprire infinite differenze. Oggi molti paesi riconoscono nella loro pienezza l’accesso di tutti, anche di persone dello stesso sesso, al matrimonio egualitario perché lo considerano qualcosa di affidato alle dinamiche degli affetti che sono costruite dalle persone. Invocare la natura, se posso usare uno slogan molto semplicistico, di cui un po’ mi vergogno, è un modo di violentare la natura: usare l’argomento naturalistico per negare la vita delle persone è un’operazione orribile a cui un giurista non si dovrebbe prestare e di cui un politico si dovrebbe vergognare. Questo è lo spirito che metto nello scrivere di queste cose: forse con un di più di coinvolgimento, ma se si affrontano questi temi non si può scegliere una frigidità imposta; in questo caso l’oggetto è una sfida continua alla frigidità del diritto.
Nelle primissime pagine del libro scrive, ma sembra quasi esclamare: “Di nuovo le donne, ancora le donne, sempre le donne!”. Qual è il suo rapporto con il pensiero femminile e femminista e quanto grande è il suo debito con esso?
Io ho un debito, confessato, in quasi tutti i miei libri, verso il pensiero delle donne. Ma in questo caso vi è un riconoscimento ulteriore: perché quando con mia moglie, anni fa, abbiamo riletto attentamente il dibattito alla Costituente che riguardava il diritto di famiglia, abbiamo registrato una grande arretratezza della cultura giuridica italiana. Non un’arretratezza diffusa e generica, ma l’arretratezza della cultura giuridica di Piero Calamandrei, Vittorio Emanuele Orlando e Francesco Saverio Nitti. Personalità di enorme rilievo: Orlando è il fondatore del diritto pubblico italiano, Calamandrei è un grande studioso e il difensore della Costituzione. Ma quando si arriva a discutere della formula del matrimonio fondato sull’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi questi uomini ritengono che la formula dell’uguaglianza non possa essere inserita nella Costituzione perché in contrasto con il codice civile. Un’affermazione sorprendente perché questi signori sapevano che in quella sede stavano cambiando la gerarchia delle fonti, stavano scrivendo qualcosa che stava al di sopra delle leggi ordinarie. Il codice civile è stato considerato il cuore della disciplina giuridica perché era il codice della proprietà e del contratto, ma anche il codice civile sarebbe stato sottomesso alla Costituzione.
In quell’assemblea, altissima per il livello del dibattito, è Maria Maddalena Rossi che quando Pietro Clamandrei sostiene: “Non mi risulta che nessuno voglia cambiare il codice civile”, replica: “Saranno le donne italiane che lo cambieranno”. Ed è una verità. L’“NN” anagrafico, che era una mostruosità e una violenza, viene eliminato anni dopo per iniziativa di due donne: una democristiana, Maria Pia Dal Canton, e una socialista, Lina Merlin, più nota per la sacrosanta battaglia contro le case chiuse. E quando si va avanti fino al referendum sul divorzio, ancora Fanfani nei suoi comizi paventava il rischio che con il divorzio le donne italiane sarebbero state abbandonate perché il divorzio avrebbe avvantaggiato la parte più forte, cioè il marito, che aveva le sostanze e portava i soldi a casa. In una conversazione privata Lelio Basso mi raccontò di come Togliatti fosse molto prudente sull’inserimento della formula dell’indissolubilità del matrimonio, attento da un lato a non rischiare una rottura con la Chiesa, dall’altra timoroso delle reazioni della base del suo partito. Non tutto è chiaro su come siano andate le cose, ma alla fine il segretario del Pci schiera il suo partito contro l’inserimento della parola “indissolubile” accanto alla parola matrimonio nella Costituzione. Basso mi disse che furono le donne del Pci a convincere Togliatti, non so però se furono quelle della base o le combattive donne della Costituente, le rappresentanti o le rappresentate, ma il dato resta.
Il discorso sul genere invece è nel libro un po’ eluso perché ha una sua componente biologica: le donne sono diverse dagli uomini e hanno anche la funzione storica di consentire la prosecuzione della specie. Ho evitato di entrare nel merito della questione perché non ritenevo che questo fosse, nella discussione tra diritto e amore, un punto determinante. Si può smontare l’idea che esistano comportamenti contro natura dimostrando che si tratta di una costruzione culturale, basta leggere gli antropologi e gli storici per esserne consapevoli. È una costruzione culturale ancor prima di essere un artificio giuridico. Ma ho preferito affrontare la questione da un altro punto di vista, quello dell’uguaglianza. L’uguaglianza per come è venuta sviluppandosi è un’uguaglianza basata sulla diversità, che deve tener conto dell’esistenza di situazioni diverse e ne deve garantire il pieno riconoscimento. L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea contiene una lunghissima elencazione (la più lunga che si trovi in un documento giuridico) delle cause di discriminazione ed è un’elencazione aperta che garantisce da quelle nominate, ma prevede anche che ce ne possano essere di nuove.
Solo se si riconosce la diversità in tutte le sue sfaccettature, è possibile parlare di eguaglianza, altrimenti si è sul terreno della discriminazione. Il sesso nella storia delle Costituzioni (che poi è una storia molto recente) è considerato un dato biologico, invece nell’articolo 21 è sì presente il sesso biologico, ma l’ultima parola va all’orientamento sessuale, che è un costrutto e che ha a che fare con la vita.
Che nesso esiste tra solidarietà (cui ha dedicato, nel 2014, sempre per Laterza, un altro importante saggio) e amore? O meglio: quale rapporto corre tra diritti civili e diritti sociali?
Una relazione così impegnativa come è la relazione amorosa dovrebbe in qualche modo essere liberata dalla necessità. Cito, sia in questo libro sia in quello sulla solidarietà, il caso del precario o del disoccupato che non può formalizzare la sua relazione amorosa per mancanza di mezzi.
Nei numerosi dibattiti cui ho partecipato su solidarietà e uguaglianza, spesso mi è capitato di partire dalle parole di un’altra canzone di Giovanna Daffini, una mondina scoperta dal gruppo del Nuovo canzoniere italiano perché aveva una grande memoria delle canzoni delle mondine, e poi perché cantava in modo sublime. Il testo di una di quelle canzoni recita: “Sebben che siamo donne / paura non abbiamo / Abbiam delle belle e buone lingue / e in lega ci mettiamo”. Questa strofa è la perfetta sintesi di tante cose importanti. Primo, la condizione femminile non è subita: sappiamo che siamo discriminate (sebben che siamo donne…), ma non ci facciamo metter sotto da nessuno (paura non abbiamo), perché usiamo la libertà di manifestazione del pensiero (abbiam delle belle e buone lingue) e ci uniamo nelle nostre comuni rivendicazioni (e in lega ci mettiamo).
Nel libro cito invece un’altra bellissima canzone, scritta da Gualtiero Bertelli, Nina, ti te ricordi, degli anni sessanta. Nina, ti te ricordi è l’altro versante della questione, racconta la subordinazione da cui non si riesce a uscire. Una subordinazione culturale che passa attraverso la madre che brontola, attraverso il parroco che ammonisce dall’avere rapporti sessuali prima del matrimonio, e perfino dopo il matrimonio, tale era il condizionamento per cui continuavano a pensare di stare peccando (“E dopo se semo sposai / … a mi me pareva / parfin che fusse un pecà”). Anche se gradualmente i due riescono ad andare oltre questo condizionamento culturale, a liberarsi da questa morale costrittiva, non riescono però a liberarsi dalle costrizioni dettate dalla condizione materiale: “e intanti ti Nina te speti”, tu aspetti un figlio “e mi so disocupà”. Dunque le condizione materiali contano anche per la pienezza del rapporto amoroso e affettivo: “Amarse no xe no un pecato, / ma ancuo el xe un lusso de pochi”. Questo è un punto sul quale mai come in questo momento (e non solo in Italia) bisogna stare attenti, perché non possiamo scambiare un abbattimento di diritti sociali con mance di diritti civili.
La pervasività del diritto e i suoi limiti
“Amor non est in provincia juris”: così vuole il diritto canonico. Questa immagine, che raffigura il diritto ritrarsi rispettoso dalla sfera dei sentimenti, sancisce più realisticamente l’irrilevanza dell’amore per il mondo del diritto, l’incapacità del discorso giuridico di parlare il linguaggio degli affetti. E tuttavia non può certo dirsi che il diritto non si insinui nella vita affettiva. Al contrario in Diritto d’amore (pp. 158, € 14, Laterza, Roma-Bari 2015) Stefano Rodotà mostra con finezza argomentativa che “l’amore è incatenato dal diritto”. La recensione di Maria Rosaria Marella (on line l’articolo è accessibile agli abbonati dopo aver effettuato il login, o acquistando il .pdf di febbraio 2016 nella sezione Shop del sito).