Una cometa che passa di rado
di Jacopo Conti
Il grandissimo chitarrista Adrian Belew una volta ha descritto il suo rapporto di lavoro con David Bowie come diametralmente opposto rispetto a quello con Frank Zappa. Dopo essere stato scoperto dal baffuto chitarrista-compositore e impiegato in un estenuante tour mondiale, Belew lavorò con Bowie nei concerti che poi vennero immortalati nel disco Stage. Se con Zappa aveva imparato l’importanza della disciplina e il ruolo del lavoro duro e dell’organizzazione, Bowie gli chiese di essere il più libero possibile, di lasciarsi trasportare da qualsiasi pensiero musicale/sonoro gli venisse in mente. In seguito, Belew avrebbe suonato nei King Crimson, nei Talking Heads e con moltissimi altri. Se Bowie non gli avesse chiesto di essere se stesso, probabilmente non avrebbe avuto le opportunità che ha avuto dopo.
Questo piccolo aneddoto può essere impiegato come chiave di volta per comprendere il pensiero di David Bowie, il suo “metodo di adattamento”. Non può non colpire, osservando la sua lunga carriera discografica, il numero impressionante di cambiamenti estetici cui è stata sottoposta la sua musica. Space Oddity, Hunky Dory, The Rise and the Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, Diamond Dogs, Low, “Heroes”, Let’s Dance, Tonight, i Tin Machine, 1. Outside, Earthling, …hours e Black Star non sono solo alcuni tra i moltissimi dischi che Bowie ha dato alle stampe dal 1969 a oggi, e non sono solo divisi dagli anni. Tra essi vi sono prospettive estetiche molto distanti. I detrattori di Bowie sostengono che saltasse da una moda all’altra semplicemente per attrarre un pubblico sempre più ampio. In realtà, ha sempre cercato nuove soluzioni, e nel farlo ha avuto un grandissimo fiuto nel circondarsi delle persone giuste. Ritenere che i musicisti nei suoi dischi cambiassero sovente solo perché cambiava genere di volta in volta sarebbe riduttivo: come con Belew, chiedeva loro di esprimersi al meglio. Il suo fiuto nella scelta delle persone giuste a cui dare libertà è stata probabilmente la sua forza, sposata a un grande, grandissimo talento da showman che sapeva declinare nel canto, nella danza, nella recitazione, nel mimo e a una dedizione allo studio incredibile. Agli altri chiedeva di liberarsi, a se stesso chiedeva disciplina e dedizione.
La collaborazione con Brian Eno
Sottolineare l’aspetto collaborativo di David Bowie non significa in alcun modo sminuirne la bravura: ha saputo, con grandissima intelligenza, impiegare a suo favore tutto ciò che le nuove tecnologie e le nuove scene (e i loro relativi “eroi”) potevano offrirgli, adattandovisi benissimo. La sua collaborazione con Brian Eno ha generato dischi osannati da critica e pubblico; dire che siano frutto solo del genio di Eno è sbagliato, perché se è pur vero che da solo Bowie non sempre è riuscito a raggiungere tali vette (ma è poi vero?), lo stesso vale per Eno. Così come con lui, Bowie ha saputo trarre beneficio dal lavoro con produttori e musicisti fondamentali della popular music del ventesimo secolo, come Tony Visconti, Nile Rogers, Giorgio Moroder, Iggy Pop, Lou Reed, John Lennon, i Queen, Pat Metheny, Robert Fripp, Mick Jagger e molti altri. Tutti lo hanno ricordato come un grande amico prima ancora che un grande artista.
E ha saputo fare esprimere al meglio gli artisti che a lui si affidavano: Transformer di Lou Reed, per intenderci il disco con Perfect Day e Walk on the Wild Side, è stato prodotto e arrangiato da Bowie (che, tra l’altro vi suonava il sax e partecipava ai cori – sono suoi i falsetti alla fine di Satellite of Love). Senza questo LP, l’ex leader dei Velvet Underground avrebbe probabilmente abbandonato la carriera musicale, dopo un deludente esordio da solista, e noi non avremmo alcune canzoni scolpite nella memoria collettiva.
Proprio per questo seppe destreggiarsi senza la minima difficoltà nello show business, non disprezzando (o fingendo di disprezzare) le implicazioni commerciali ed economiche della sua attività, come molti suoi colleghi. Con macabra puntualità, è riuscito anche a pianificare l’uscita del suo ultimo disco sapendo che sarebbe morto di lì a poco. La più estrema e spaventosa strategia di marketing, ma con una sfumatura nuova, in qualche modo da gentleman: lo ha fatto sulla propria pelle, non come nel caso degli squali che pubblicano libri e raccolte di canzoni del martire di turno. È come se, non diversamente da Ziggy Stardust, fosse in qualche modo anche lui morto sul palco.La sua vis attoriale e la sua fame artistica ne fecero un grande interprete non solo vocale: ebbe una intensa carriera cinematografica, e seppe tradurre con grande intelligenza e sensibilità – di nuovo, sempre sapendo affidarsi alle persone giuste – questo talento in concerti che oltre alla musica presentavano grandi scenografie, coreografie ed effetti scenici. Raramente si è vista una persona capace di coniugare in modo così felice entertainment e arte con tale potenza.
Nel frattempo, protetto da un nome d’arte, da un fantoccio che cambia look e stile musicale come cambia il vento, David Robert Jones, un uomo di sessantanove anni, si è spento serenamente e si è fatto cremare chiedendo che non vi fosse nessuno intorno a lui. David Jones mancherà alla famiglia e ai suoi tanti amici. David Bowie mancherà a tutto il resto del mondo, anche ai suoi pochi detrattori (che lo rimpiangeranno) e ai giovanissimi che non lo conoscevano ancora. Per fortuna, rimangono i suoi dischi a futura memoria, per non dimenticare una cometa di quelle che passano troppo di rado.
jchitarra@libero.it
J Conti è dottore di ricerca in musicologia e musicista