Un classico riportato sulle scene
di Sara Prencipe
dal numero di gennaio 2016
Quando mi hanno proposto di ritradurre L’Avaro di Molière per il Teatro Stabile di Torino ho pensato istintivamente che la prima fase del mio lavoro sarebbe stata segnata da una sorta di paralizzante timore reverenziale, e che una volta superato quello scoglio avrei potuto immergermi in una rilettura più serena del libro, magari costellata di qualche ricordo nostalgico del periodo del liceo, quando l’ho letto la prima volta. Quello che non sospettavo era che la mia traduzione avrebbe attraversato molte fasi e che non si sarebbe esaurita nel momento in cui avessi tradotto l’ultima parola. Anzitutto c’è stato, sì, l’impatto emotivo con l’idea del testo che avevo di fronte. E quell’idea naturalmente mi spaventava, mi intimoriva. Non mi ero mai trovata a dover tradurre un classico, un nome così importante della letteratura francese, una figura che si portava dietro traduzioni autorevoli, suggestioni, personaggi che appartengono all’immaginario collettivo. Inoltre non avevo mai tradotto per il teatro, e immaginavo che doversi confrontare con un testo destinato a essere recitato e non semplicemente letto sarebbe risultato diverso dal tradurre un libro.
Superato questo primo passaggio, ho vissuto l’approccio vero e proprio al testo in sé, alla lingua di Molière che, per quanto precisa e sorprendentemente moderna nel far arrivare subito il messaggio che contiene – sia esso una battuta o una critica – mi risultava opaca, lontana dalla mia sensibilità e da quello che sono abituata a tradurre. Facevo i conti con lo scarto che avvertivo tra l’immediata chiarezza di ciò che leggevo e la mia lingua, che sentivo incapace di restituire l’agilità e la scorrevolezza che un testo recitato esige. Eppure la soluzione era lì, davanti a me, e a poco a poco ho cominciato a percepirla sottotraccia, in modo istintivo. La soluzione era lasciarsi guidare dalla lingua di Molière e da quello che mi comunicava, dalla storia, dalle parole dei personaggi, da un testo che cambiava chiaramente registro a seconda dell’emozione che intendeva esprimere: c’erano lo struggimento e l’autenticità dell’amore contrastato dei dialoghi tra Elisa e Valerio, la tenerezza fraterna del modo in cui Elisa si rivolge a Cleante, la comicità delle scene legate ai domestici e ai servitori, la disarmante e grottesca meschinità di Arpagone, una certa epicità nel grido di denuncia di Cleante. Per me, mantenere quei registri era possibile soltanto seguendo il testo in modo spontaneo, con un approccio del tutto emotivo, cercando di riversare il flusso delle mie parole in quell’alveo scavato così bene da Molière, abbandonandomi alla corrente. Quando finalmente ci sono riuscita, mi sono resa conto che sì, leggendo la traduzione cominciavo a sentirla meno ingessata, la percepivo più sciolta e autonoma rispetto al testo francese, eppure c’era ancora qualcosa che non tornava.
Il testo attraverso la voce degli attori
La seconda fase del lavoro è coincisa con una consapevolezza tanto concreta quanto improvvisa di quello che avevo scritto. Finito di tradurre il libro ho assistito alle prove della compagnia teatrale che avrebbe recitato la pièce. Non avevo deciso di farlo per capire meglio il testo o approfondire la psicologia dei personaggi, o quantomeno non l’ho fatto in modo consapevole. Adesso so che il mio desiderio di assistere alle prove (e poi di partecipare a tutta la fase di preparazione dello spettacolo) aveva molto a che fare con il bisogno di immergermi in quello che avevo letto e tradotto, ma in quel momento si trattava ancora di un’aspirazione totalmente sotterranea, legata più che altro al fascino che il teatro e il suo mondo hanno sempre esercitato su di me. Durante le prove, per la prima volta ho sentito recitare dalla voce di qualcun altro quelle frasi che ancora mi risultavano aliene, per certi versi inespressive, che conservavano una sorta di resistenza. E ho scoperto con immensa meraviglia che la voce degli attori a un tratto restituiva chiarezza a quel testo che sentivo distante. Ho scoperto che sentirli recitare mi rendeva limpido il senso di quello che istintivamente percepivo nel testo francese e che mi sembrava di non essere stata in grado di riportare nell’italiano. Quando, dopo le prime prove, sono tornata a confrontarmi con la traduzione ormai conclusa, l’ho riletta con occhi diversi, ci ho visto dentro quello che cercavo nelle settimane precedenti. In realtà dovrei dire che l’ho riletta “con orecchie diverse”, perché allora sentivo risuonare dentro di me le voci che ormai conoscevo, sentivo un testo recitato, non si trattava più semplicemente di leggere.
Di fronte al nitore assoluto di ciò che Molière voleva comunicare scrivendo L’Avaro e avendo ormai ben chiare le dinamiche dei rapporti tra i personaggi, le frasi sono andate al loro posto, si sono incastrate, improvvisamente mi balenava davanti agli occhi il sinonimo esatto o un termine particolarmente adatto a una certa scena. Conscia di prendermi qualche libertà (e confrontandomi con il regista dello spettacolo, Jurij Ferrini), nella fase di adattamento del copione ho intuito che per restituire intatta la modernità di Molière, la lingua doveva essere il più scorrevole e limpida possibile, senza perdere la verosimiglianza né tradire un testo che di per sé aveva già tutto ciò che era necessario a essere divertente e al contempo a muovere una critica. I tagli (anche sostanziosi, in alcuni passaggi) che abbiamo deciso di fare sono stati motivati soprattutto da questa ricerca di scorrevolezza e dalla necessità di avere un testo veloce, adatto al genere di spettacolo che aveva in mente Jurij; sono da leggere in questa chiave anche le libertà lessicali che ci siamo concessi e che si spiegano con la scelta di attualizzare e rendere più comiche le scene più leggere, quelle che più si prestavano a un’interpretazione libera e che lasciavano un ampio margine all’improvvisazione teatrale. È capitato che abbia deciso di inserire in traduzione certi termini e frasi che gli attori hanno improvvisato sul momento durante le prove, perché nel corso delle settimane la fase dell’adattamento è diventata spesso un lavoro corale.
In quelle settimane tornavo a casa e leggevo il copione ad alta voce per rendermi conto di cosa fosse superfluo e cosa necessario, più che mai avevo bisogno di percepire il suono che avevano le parole. Non mi capita quasi mai di leggere ad alta voce quello che traduco, in questo caso invece sentivo l’urgenza di cogliere l’“aspetto”, la consistenza, la densità, la materia delle parole che prendevano corpo, avevo bisogno di capire che suono portava con sé un termine che si faceva voce.
Quando mi hanno proposto di ritradurre L’Avaro di Molière sapevo che avrei provato un timore reverenziale nei confronti del testo e che poi avrei scoperto quelle mille sfumature linguistiche che mi sorprendono e mi affascinano ogni volta che traduco un libro e di cui non sarei, non sono, consapevole quando un libro mi limito a leggerlo. Immaginavo che tradurre un copione non fosse come tradurre un libro, ma non avevo idea di quanto inedita e indimenticabile sarebbe stata questa esperienza, di quanto le due fasi di traduzione e adattamento si sarebbero compenetrate, nutrendosi l’una dell’altra alla luce di tutto quello che vedevo e sentivo concretamente assistendo alle prove.
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S Prencipe è traduttrice dal francese e dall’inglese.