Un anno fa, il 27 novembre, moriva Aldo Fasolo. In suo memoria pubblichiamo la relazione tenuta da Alberto Piazza all’Accademia delle scienze il 27 novembre scorso.
A un anno dalla scomparsa di Aldo Fasolo pare impossibile celebrarne il ricordo: mi sembra di averlo ancora accanto con il suo sorriso tra l’ironico e il divertito, sempre pronto a metter a proprio agio l’interlocutore in un’opera continua di proposte da attivare ed entusiasmi da coltivare. Gli interventi che mi hanno preceduto hanno ben illustrato come il suo percorso da scienziato sia stato sempre un percorso aperto, in cui il rigore si integrava con una capacità non comune di individuare opzioni alternative prese a prestito da altre discipline, includendo quelle apparentemente più lontane e sorprendenti. Lo sgomento che ha colto tutti i suoi amici e colleghi si è tramutato in un’ombra dalla quale non è facile emergere: io vorrei onorarlo non tanto ripercorrendo la sua multiforme attività, quanto identificando il ritratto di un amico.
Quando le persone vengono a mancare, i ricordi si affollano quasi volessero riempire il vuoto che si è creato. Alcuni ricordi sono più intimi, e di questi non parlo; altri coinvolgono persone diverse, spesso scrutate nella loro più nuda verità, e anche di quelli non parlo. Vorrei concentrarmi invece su tre momenti di carattere pubblico-privato in cui i rapporti di amicizia, non originati da occasioni di lavoro o ricerca comune, si sono consolidati in una frequentazione più intensa e confidente.
Il primo è l’impresa davvero titanica, perseguita con italo-calviniana “leggerezza” non disgiunta da severa caparbietà, della redazione del “Dizionario di Biologia” edito dalla UTET e pubblicato nel 2003, un’opera a mio parere non sufficientemente valutata e ancor meno diffusa i cui diritti d’autore ci hanno permesso a malapena di offrirci una buona cena all’anno. Sulle 1000 pagine che compongono il volume, poco meno di 80 mi sono state affidate da Aldo con un sorriso tanto signorile quanto esigente: qualche volta mi chiedevo perché mi sottoponessi a quella fatica, senza nemmeno la soddisfazione di un buon “Impact Factor”, ma Aldo aveva sempre la risposta pronta, che spesso anticipava la domanda: “Sii responsabile”. Il problema della “responsabilità” connotava in quel periodo molte delle nostre riflessioni ad alta voce e a lungo abbiamo discusso sulla “Presentazione” che Aldo ha poi premesso al Dizionario. Leggo alcuni passaggi significativi :
- Capire la biologia, oggi, significa non soltanto capire come la ricerca scientifica abbia mutato la nostra immagine e quella del mondo che ci circonda, laicizzando il vivente, ma anche come questa abbia innescato cambiamenti irreversibili nella vita pratica.
- Mentre la scienza, nel suo complesso, pur fra alti e bassi storici, ha goduto di un forte sostegno e di grandi speranze, la biologia è stata sempre percepita come pericolosa e blasfema. A tale immagine, socialmente inquietante, hanno contribuito in modo significativo scienziati importanti che per orgoglio luciferino, arroganza, bisogno di apparire, o semplicemente per volontà di definire le potenzialità della disciplina che praticavano, hanno attinto a piene mani a miti prometeici e demiurgici. È di questi giorni l’infatuazione per le cellule staminali del cervello, un tema affascinante e di grandi potenzialità, ma che viene venduto da molti scienziati come l’ennesima panacea ai mali del corpo e dell’anima.
- In conclusione, il libro dovrebbe inviare un forte e chiaro messaggio che la dialettica, talvolta distruttiva, fra la pratica della “ragione strumentale” e l’ideale della “conoscenza fine a se stessa”, impone di scegliere, secondo un principio di responsabilità, mai disgiunto dalla conoscenza e dal confronto con gli altri. Di scienza si può anche morire, ma senza scienza non si sopravvive.
Queste riflessioni affilate per colpire il loro bersaglio, mi inducono a ricordare la sua generosità anche nel campo della comunicazione della scienza: come pochi altri uomini di scienza, ha saputo animare la vita scientifica e culturale del nostro Paese, non solo organizzando incontri rivolti al grande pubblico, ma anche partecipando con passione alla direzione del mensile culturale “L’Indice dei libri”, di cui era orgogliosissimo e compagno generoso, oltre che attivo collaboratore: le sue recensioni riguardavano soltanto i libri che lo interessavano e non erano mai né scritti d’occasione, né semplici schede. Mi piacerebbe che fossero raccolte tutte in un volume e non sarebbe un volume smilzo perché, nell’arco di 20 anni, ne ho contate ben 105.
Il secondo aspetto di Aldo di cui sono stato testimone riguarda un lavoro comune, per quattro anni letteralmente a fianco a fianco sullo stesso tavolo, successivamente su tavoli diversi ma ancora più uniti in uno scambio continuo di opinioni, di silenzi e di intese al volo nell’ambito della Compagnia di San Paolo. Il mio ingresso, che ha preceduto quello di Aldo, mi ha aperto un mondo nuovo, totalmente sconosciuto e perciò molto stimolante, “politico” in un senso più ovattato ma più efficiente e reale di quello che avevo sperimentato nell’Università. Nel mio tentativo di porre, se non al centro, almeno in una sfera visibile, il mondo della scienza, in particolare quello della biomedicina sovente citato ma poco frequentato, ho imparato molte cose e conosciuto molte persone: in quel contesto mi si è confermata la convinzione che per fare occorre ascoltare, in primo luogo chi ne sa più di te. Si è rafforzata in me l’inclinazione a giudicare le persone dalla loro capacità di ascolto: ebbene, la capacità di ascolto di Aldo era non solo elevata, ma, lasciatemi dire, raffinata, soprattutto nella sua capacità di sciogliere le situazioni di tensione con la citazione sapiente, con lo scherzo inaspettato, con l’aneddoto fuorviante ma liberatorio. L’accompagnava un atteggiamento spesso ironico, ma sempre affettuoso; se anche la rabbia covava dentro, si distraeva in circuiti neuronali incapaci di miserevoli vendette; se perdeva qualche battaglia, ciò avveniva in modo cristallino e signorile: ci capivamo al volo, solidali nel voler ricucire e nell’opporci al demolire, sport abbastanza praticato allora come oggi.
L’ultimo aspetto che desidero ricordare riguarda direttamente l’attività di questa Accademia, quando (nel maggio del 2010) abbiamo organizzato, in collaborazione con l’Accademia dei Lincei e la Berlin-Branderburgische Akademie der Wissenschaften, un Convegno dal titolo “The Theory of Evolution and Its Impact” i cui Atti sono stati curati da Aldo e pubblicati da Springer nel 2012.La scelta dei temi e dei relatori, e infine la revisione dei contributi scritti, sono stati occasione di contatti quotidiani; ma è il capitolo che Aldo ha scritto per l’introduzione del volume che intendo ricordare a incominciare dal titolo “The Sand Walk (on the Darwin’s Steps)”, anche perché, seppellito tra gli Atti di specialisti, è poco probabile che sia stato letto e meditato.
Il titolo non è casuale ma ha un riferimento preciso. La villa di Darwin, la Down House, nella stupenda campagna del Kent, è circondata da un ampio parco delimitato da una strada sabbiosa: qui il figlio di Darwin, Francis, vedeva il padre camminare a lungo in atteggiamento assorto, ma sempre attento ai giochi suoi e dei suoi amici, affinché non si facessero male giocando. Sulle orme di quei passi si è sviluppata una nuova era della biologia moderna e nel quinto paragrafo del contributo, dal titolo “Concetti vecchi e nuovi”, Aldo ci invita a riflettere su temi vecchi e nuovi sui quali da tempo amava interrogarsi. Lamentava il fatto che molti di noi studiosi dell’evoluzione ci occupassimo del ruolo delle differenze, ma ben pochi del ruolo delle somiglianze nell’evoluzione non solo biologica, ma anche culturale.
In termini tecnici l’ ”omoplasia”, ovvero l’acquisizione dello stesso carattere in linee evolutive tra di loro indipendenti, cioè senza un antenato comune recente, è un fenomeno che si osserva in natura con una certa frequenza. Come si origina la somiglianza? Qual è il suo ruolo nello sviluppo del cervello umano ai suoi diversi livelli di funzionalità neuroanatomica? Ricordo che seduti al tavolo di un bar sorseggiando un caffè, abbiamo fantasticato cercando di identificare un correlato culturale dell’omoplasia. Eravamo concordi nel proporre quale candidata l’ambivalenza, una forma di omoplasia in cui lo stesso carattere si adatta a più funzioni diverse, e dall’ambivalenza ci siamo avventurati sul terreno dell’ambiguità nella comunicazione, anche artistica, estrapolandone possibili vantaggi evolutivi. Si trattava di quelle piacevoli contaminazioni che le parole in libertà sanno concedere, per poi richiamarci al rigore indicato dalle pagine seguenti dello stesso testo, ammonendoci che troppo spesso gli studiosi di neurobiologia comparata hanno considerato l’evoluzione del cervello come il risultato di successive trasformazioni nel tempo osservate nei cervelli adulti. L’esempio che anche nella semplice elaborazione di singole parole, a livello neuroanatomico e funzionale, il cervello umano nelle prime fasi dello di sviluppo si differenzi da quello completamente sviluppato dell’adulto, dovrebbe indurci a uno studio più attento dei suoi processi dinamici durante l’intero ciclo vitale, sfruttando le risorse delle nuove tecnologie di dissezione molecolare e di imaging oggi disponibili per una analisi funzionale sistematica del genoma.
Se si lasciasse libera la fantasia, la tendenza a inseguire Darwin troppo da vicino ci farebbe deragliare: non distratto dal caffè, ne era ben consapevole Aldo quando affermava che non siamo ancora in grado di conoscere le pressioni adattative in grado di produrre innovazioni nell’evoluzione del cervello e del comportamento; e ci ammoniva ad attenerci rigorosamente alla disciplina metodologica riportata da Williams nel suo saggio Adaptation and Natural Selection (1996):
”L’adattamento evolutivo è un concetto particolare ed impegnativo che non dovrebbe essere usato se non necessario: un effetto non dovrebbe essere chiamato una funzione se non fosse prodotto chiaramente per necessità e non per caso. Quando riconosciuto, l’adattamento evolutivo non dovrebbe essere mai attribuito ad un livello di organizzazione superiore a quello richiesto dall’evidenza sperimentale.”
Purtroppo non potremo più parlarne, caro Aldo. La dura realtà per cui siamo qui raccolti ci ricorda che l’assenza di un amico quale Aldo è stato per tutti noi, non ha certo il carattere dell’ ambivalenza: è una crudele verità che ci trafigge nel profondo, e che lascia una malinconia che durerà a lungo. Ma nella consapevolezza di dover continuare a volger lo sguardo verso il futuro, permettetemi di concludere con una immagine di Aldo e Paola sorridenti: è di molti anni fa, e spero che il sorriso di entrambi possa essere di buon auspicio per i nostri figli e i nostri nipoti.
A Piazza insegna genetica all’Università di Torino