Enzo Traverso: gli intellettuali, miopi, incompresi, ma indispensabili

La parabola novecentesca dell’intellettuale e le sue trasformazioni

di Diego Guzzi

dal numero di dicembre 2015 

Intervista a Enzo Traverso

Nel Novecento sembrano delinearsi due modelli di intellettuale: quello incarnato da Sartre, che agisce sulla base di valori universali e quello teorizzato da Foucault che interviene pubblicamente usando il proprio sapere specifico. Secondo lei questa contrapposizione è fondata?

Non vedo una contrapposizione tra intellettuale generalista e intellettuale specifico; piuttosto, per definirsi intellettuali, lo scrittore, l’artista, il creatore o il ricercatore devono intervenire nello spazio pubblico, intervenire nella società. Nel libro Che fine hanno fatto gli intellettuali? scrivo, a un certo punto, che Einstein è un intellettuale non perché abbia ricevuto il premio Nobel per la fisica o elaborato la teoria della relatività, ma per aver usato la notorietà, la fama internazionale che gli derivava dal suo ruolo in campo scientifico per prendere posizione su questioni fondamentali relative alla politica europea e alle relazioni internazionali. Si può pensare che l’opposizione alla mercificazione della cultura sia un ripiegamento, un ritirarsi nella torre d’avorio, un pensiero critico dedito a una produzione intellettuale isolata, che neppure si pone il problema di trovare degli interlocutori. Si tratta di una scelta legittima, anche rispettabile, ma non di una scelta da intellettuale. Penso che la concezione illuminista per cui intellettuale è colui che esercita l’uso critico della ragione ed elabora una riflessione critica sulla società in cui vive, abbia ancora la sua validità. Una figura che non si deve idealizzare, perché la storia degli intellettuali è fatta anche di miopie, tradimenti, incomprensioni, fraintendimenti a volte tragici: basta pensare al rapporto più che ambiguo degli intellettuali del Novecento con lo stalinismo, l’anticomunismo e la guerra fredda. Non si tratta di mettere l’intellettuale su di un piedistallo, ma penso che nel mondo di oggi ci sia bisogno di figure che alzino la voce per criticare il potere. Per far ciò, ben vengano intellettuali specifici che possano argomentare, ma ci sono temi con cui tutti devono confrontarsi. Le guerre mediorientali, per esempio, riguardano tutti, non sono appannaggio esclusivo degli islamologi. Io non scriverò mai un libro sull’islamismo radicale non avendo le competenze necessarie, ma questa non è una scusa per disinteressarsi o rinunciare a esprimere la propria opinione su ciò che avviene nel mondo. Penso che Edward Said avesse ragione: a prescindere dalle diverse definizioni, l’intellettuale, specifico o organico, dà voce a una critica del potere senza la quale non è possibile far funzionare una società democratica.

In che cosa differisce oggi un intellettuale rispetto al modello novecentesco? E quando è iniziata la trasformazione?

Il 1989 segna una svolta, una cesura nata dalla condensazione di tante contraddizioni accumulate nei decenni anteriori. Non un evento repentino, ma il punto di svolta di un processo che attraversa tutti gli anni ottanta e del quale possiamo percorrere retrospettivamente le tappe. Se pensiamo al contesto italiano, la svolta è iniziata nel 1980: un cambiamento radicale rispetto agli anni settanta che ha coinciso anche con le trasformazioni del mondo intellettuale. Fino agli anni settanta l’intellettuale era una figura quasi sacra, emblematicamente rappresentata da Pasolini; negli anni ottanta emergono dai media figure nuove di opinion makers, riconosciuti non in virtù della loro opera ma in base alla visibilità e ciò ha trasformato profondamente la nozione stessa di intellettuale. L’intellettuale di oggi appartiene a una casta non perché possieda il monopolio della parola scritta, ma perché ha il privilegio di accedere ai mezzi di comunicazione di massa. Uno dei grossi problemi che oggi devono affrontare gli intellettuali è come usare i mezzi di comunicazione. Régis Debray ha teorizzato la transizione storica dalla “grafosfera” alla “videosfera”, da una cultura del libro, dominata dalla scrittura che inizia dal Rinascimento e arriva grosso modo fino all’avvento della televisione, per essere poi sostituita da una cultura dell’immagine. La scelta che hanno fatto gli spagnoli di Podemos è interessante perché hanno deciso di rischiare, di usare i mass media, ma senza esserne prigionieri e sottomettersi alla logica dei monopoli dell’informazione e dell’industria culturale: decidono, ad esempio, quando e come partecipare a dibattiti televisivi. Dall’altro lato hanno costruito loro propri canali di informazione; tv on line come La Tuerka e programmi come Fort Apache hanno un pubblico sempre più vasto che li segue, perché sono loro stessi a gestirle, a fissarne l’agenda, i temi e gli obiettivi. È un esempio che non si può meccanicamente trasporre: in Egitto la primavera araba, attraverso il filtro di internet e dei social network, è stata quasi mitizzata, come se fossero stati tali mezzi a produrre le sollevazioni. I social e la rete sono invece solo strumenti, bisogna saper usare internet per creare un movimento ma per crearlo bisogna avere degli obiettivi, delle idee, una cultura, un progetto e questo, chiaramente, in Egitto non c’era per una serie di ragioni storiche. Una rivoluzione operata dalle nuove generazioni attraverso una rottura completa con il passato, senza la possibilità di collegarsi a tradizioni precedenti, una rivoluzione che non poteva più rivendicare il nazionalismo, il panarabismo, il socialismo laico, che non poteva neppure rivendicare l’islamismo, dà vita a un movimento con enormi potenzialità ma che, per una serie di limiti oggettivi, gli stessi della nostra epoca, non ha potuto cristallizzare un progetto. La mancanza di una forte componente intellettuale ha avuto dunque delle conseguenze importanti: le rivoluzioni arabe non sono state capaci di “inventarsi una tradizione”.

Ha fatto riferimento a Podemos. In che cosa questa esperienza politica le sembra interessante?

Penso che l’affermarsi di Podemos in Spagna e della figura carismatica di Pablo Iglesias Turrión siano una novità interessante e una fonte di speranza in Europa, è un caso che seguo con attenzione e partecipazione. Ma penso sia anche un interessante oggetto di studio per riflettere sulle metamorfosi dell’intellettuale del XXI secolo. Podemos è un movimento creato da un piccolo gruppo di intellettuali, professori di scienze politiche dell’università complutense di Madrid, che nessuno conosceva fino a poco tempo fa, i quali hanno fatto un lavoro interessante di analisi e costruzione di una rete di riflessione collettiva. Essi sono riusciti a operare questo salto di qualità: a passare cioè dal ruolo di intellettuali animatori di una discussione controcorrente ai margini dello spazio pubblico a quello di chi trasforma questa struttura subalterna, invisibile, in un movimento collettivo di massa. Hanno svolto il ruolo dell’intellettuale come organizzatore collettivo nel senso gramsciano della parola. Sono riusciti ad agganciare questo lavoro intellettuale a un movimento sociale che li ha spinti avanti, il movimento degli indignados, di Puerta del Sol a Madrid. Solo così, attraverso questo incontro, il lavoro dei professori ha potuto dare dei frutti e penso che gruppi di intellettuali comparabili, che facciano lo stesso mestiere, esistano in molti paesi. C’è un’insieme di circostanze che ha permesso in Spagna di produrre questo salto di qualità: condizioni che non esistono in Italia né in Francia o Germania, ma che lentamente non si può escludere diventino possibili. Gli spagnoli fanno riflettere sulla necessità e sulla fecondità di questo lavoro controcorrente che si può fare nei confronti del potere.

È possibile che oggi, nella sovrabbondanza di opinioni, di voci e di informazioni, la competenza che è o dovrebbe essere caratteristica peculiare dell’intellettuale, fatichi a emergere?

Sulla questione della competenza, sarebbe oscurantista criticare la specializzazione, ma si deve essere coscienti dell’uso mistificatorio che si fa di questa categoria. Abbiamo tutti assistito a lunghe discussioni fra pretesi specialisti, economisti e professori di grandi istituti di ricerca, i quali partivano tutti da un elemento comune nel discutere i mezzi per uscire dalla crisi: un’Europa fondata sui mercati. Il ruolo dell’intellettuale è mettere in discussione questa pretesa, questo assioma ideologico legittimato in nome di una scienza specialistica. Non è necessario avere letto la teoria generale della moneta di Keynes per dire che una politica economica che implica la riduzione delle pensioni o dei salari dei greci è inaccettabile. Si deve essere coscienti che questo mito della competenza serve in molti casi a mascherare delle prese di posizione ideologiche. Il ruolo dell’intellettuale consiste nel demistificare il mito della competenza e della scienza. Questo non significa che chiunque alzi la voce per criticare il potere dica cose intelligenti o interessanti ma vale anche il contrario: non è sufficiente incarnare un sapere specialistico per dire cose intelligenti. Anzi, in moltissimi casi le competenze sono al servizio di progetti discutibili o dannosi.

Intervista fatta a margine della prima Lezione Franco Antonicelli realizzata dall’Unione culturale in occasione del settantesimo anniversario dalla sua fondazione.

guzzidiego@gmail.com

D Guzzi è dottore di ricerca in studi politici