Il cucciolo di Lili
recensione di Antonio R. Daniele
“L’ultima alba di Majakovskij: non coincidono fatti, parole, luoghi, tempi. La verità ha troppi volti”. Sta tra le pieghe delle pagine questa ammissione facile facile. Un po’ nascosta oppure scritta con tanta, disarmante genuinità. Cade alla centoquarantaseiesima pagina di un ricchissimo mosaico che fino a quel punto puoi leggere con la passione dello studioso. È il displuvio del libro, mi pare. La catena dei documenti, fino ad allora attorta con mano sapiente, scioglie qualche nodo e il dolce talento del racconto prende senz’altro il largo.
Ha misurato tutto Serena Vitale: ha soddisfatto la propria richiesta di analisi e quella dei suoi estimatori quanto a esposizione di documenti e di atti; insomma, ha dispiegato il solido mestiere di russofila e poi ha liberato il suo sentimento più intimo e, come innamorata della materia e dell’uomo, ci ha letto i diari e le confessioni con la discreta complicità delle donne che ronzavano attorno a Vladimir Majakovskij, sommo poeta della Rivoluzione. Lili, “o Lilja, Lilik, Liljonok, Lilička, Liliček, Ličik, Lisik, Lju” (p. 20), Nora Polonskaja, Tat’jana Jakovleva e pure qualche promiscuità assortita, sono i nomi che frequentano “passaggio Lubjanskij”. Ma diciamolo subito: l’autrice non vuole accreditare più di tanto, e non certo per vana posa romanzesca, la tesi del suicidio passionale; non cerca neppure di scovare l’assassino, di dare adito a qualcuna delle revisioni tentate qua e là nel tempo. Come già nel fortunato Bottone di Puškin, vera e propria prova di bravura che ha già vent’anni alle spalle, c’è di mezzo una pistola, la morte seduce e stuzzica l’indagine, ma senza l’ombra del diletto morboso; come già in occasione di quel battesimo, il lavoro di ricerca è stato enorme, ma per Serena Vitale è quasi un impulso inviolabile: qualsiasi lavoro su una materia che cada oltrecortina vuole uno studio accurato e anche le parti concesse alla finzione devono pagare il tributo alle carte e agli archivi.
Ancora oggi vale per la nostra studiosa il pronostico dostoevskijano in esergo alle piccole storie russe della Casa di ghiaccio: “l’Europa ci scoprirà, come un giorno scoprì l’America”. E il pioniere transatlantico è diventato una esploratrice delle oblast’; il cercatore d’oro del Klondike la questuante curiosa di una kommunalka. Ma è altrettanto evidente che Serena Vitale cerca il poeta, l’artista, e spiega tutta intera e volentieri la distesa del materiale d’archivio per introdurvi di soppiatto il suo delicato riguardo di lettrice. Insomma, le virgolette sono tutte al loro posto, qualsiasi parola riferita ha il proprio autore: ogni buona regola filologica è stata rispettata. Ma non staremmo qui a scrivere di un libro prezioso se esso fosse solamente il saggio di una studiosa di razza: Il defunto odiava i pettegolezzi è l’opera di una scrittrice che ha, ormai, in sé tutti i sentimenti del mondo russo, comprende, fino a consumarlo, il peso della cultura sovietica. Ėjzenštejn, tra quelli che sulla morte del poeta hanno alimentato misteri e complotti, rivive nel “montaggio delle attrazioni” di questo libro, nella sequenza dei capitoli e nell’uso talora ardito del paratesto, come nel caso delle piccole sagome di cani, memoria dell’affettuoso nomignolo che Lili Brik aveva dato al suo “Volodja”. Come in una recita, Vitale conduce sulla scena le tenerezze di Lili al suo uomo e la convivenza a tre con il marito Osip; lo spettro della Čeká, forse imboccata proprio da Osip; le gazzette che sulla morte arrischiano solo “motivi di natura privata”; Nora Polonskaja, lo sparo e la sua corsa per le scale; il quaderno di Ljudmila Majakovskaja. Il personale assortimento di matrioske narrative della nostra slavista prosegue di buona lena fino al breve ma intrigante referto di balistica, resoci con la delicatezza di una donna che non ha confidenza con le pistole ma sufficiente dimestichezza con la scrittura per darci la perizia diligente e garbata di chi ha studiato ma, ad un tempo, asseconda i toni del Majakovskij fanfarone che collezionava armi, “mostrava compiaciuto la sua raccolta agli ospiti di riguardo […] e si esercitava nel tiro quando villeggiava a Puškino” (p. 156).
Una Mauser o una Browning? Quale numero di serie? Il “dossier Majakovskij” a cui Vitale ha attinto non è mai tanto minuzioso da rendere sconveniente l’incursione dei versi che cadono, a un voltar di pagina, con la stessa ragionevole combinazione della “roulette ussara, detta anche russa” a cui il poeta avrebbe giocato. Nel paragrafo che vi si riferisce Serena Vitale da parte sua gioca con le parole: il sottile calembour su “bruciapelo” (p. 163) è una delle pagine più belle del volume, un esercizio di stile nel quale si addensa tutto un mondo: depistaggi, ipotesi di fantasia, circostanze pubbliche, momenti intimi: si spara a bruciapelo a un “animale col pelo bruciacchiato. Un cane. Come quello che egli stesso era divenuto per proteggersi dalla folla ostile”. E si torna teneramente al cucciolo di Lili.
A.R. Daniele è dottore di ricerca in Italianistica presso l’Università di Foggia