Il tempo migliore della nostra vita
recensione di Antonio R. Daniele
dal numero di novembre 2015
Antonio Scurati
IL TEMPO MIGLIORE DELLA NOSTRA VITA
pp 267, € 18
Bompiani, Milano 2015
Leone Ginzburg era un giovanotto che aveva una parola sola. E quella detta ai fascisti risuonava con la fierezza di un “no”. Chi aveva creduto, anche fra gli amici, che la prima tenacia potesse col tempo placarsi per indurlo a scelte più prudenti si sbagliava. Lo stesso Benedetto Croce, già suo feticcio intellettuale, era stato meno risoluto di lui. E Croce avrebbe potuto permetterselo: la spedizione punitiva più feroce che gli fu comminata fu quell’epiteto mussoliniano all’indomani del Concordato: “un imboscato della storia”. Leone, invece, volle per sé la prima linea e Antonio Scurati, figlio del “pezzetto d’umanità più protetto, agiato e longevo che abbia mai calcato la faccia della Terra”, ha sentito tutta la pochezza del suo tempo patetico e disonesto: saputo della lettera con cui Ginzburg dava le dimissioni dall’insegnamento universitario e si rifiutava di prestare al fascismo la propria “fede inconcussa”, come diceva la tronfia retorica di allora, deve aver provato un po’ di pena per sé e per noialtri che al no volontario siamo disabituati: lo subiamo o non lo diciamo, neppure di sbieco.
Con il suo ultimo libro – vincitore del Premio Viareggio Narrativa e nella cinquina del Campiello – Scurati segue di netto una certa maniera del romanzo italiano dei nostri tempi, impastando in una densa amalgama la realtà di volti e di vite coi documenti e con la narrazione storica. Cosa poi vi sia di romanzesco in questo Il tempo migliore della nostra vita ce lo dice la pazienza della lettura: è la bontà del lettore che produce la storia; il suo desiderio, mano a mano che le pagine scorrono, di sentire i personaggi vicini ai nostri momenti o a momenti che avremmo potuto vivere. Ma quando Scurati avverte la tentazione della pagina troppo amabile, quando vede che il manto dell’avventuroso ci avvolge, ecco che lo sposta e ci dà i fatti, li ricompone con severo rigore: è il Novecento d’Italia, quello delle guerre, dei fascismi, della lotta.
Oggi il narratore ci dice tutto della sua opera: perché l’ha scritta, come l’ha combinata e il materiale che ha reperito; proclama, insomma, che il suo è un romanzo del dovere morale. Egli sa che “scrivere romanzi al tempo della televisione” vuol dire storicizzare ma con misura. Ma, più di tutto, Scurati mette a segno il colpo decisivo ambito sin dai tempi del Rumore sordo della battaglia quando chiamò alle armi gli scrittori della sua generazione invitandoli a ripristinare le ragioni del romanzo storico all’epoca dell’inesperienza.
Era il 2002: da quella esortazione abbiamo avuto un Nigro di ritorno, qualcosa di Perissinotto, Di Paolo; e poi Pennacchi, Piccolo, Marco Santagata: qualcosa è accaduto. Ma ci pare anche che Scurati abbia debordato la finzione fino a spingersi sulla soglia della pagina da enciclopedia storica: dopo la domesticità emotiva del Padre infedele, lo scrittore di origine napoletana ha stretto il cerchio e ha deciso che… Per continuare la lettura occorre essere abbonati – Scopri le nostre offerte