La musica è lo spettacolo
recensione di Pier Vincenzo Mengaldo
dal numero di giugno 2017
Vittorio Coletti
DA MONTEVERDI A PUCCINI
Introduzione all’opera italiana
pp. X-210, € 21
Einaudi, Torino 2017
Quando Coletti (e vedi il sottotitolo del saggio), parla di “opera italiana” non intende certo riferirsi solo a opere con testo italiano messe in musica da autori italiani, ma anche alle prime in quanto musicate pure da autori di altra lingua, come è più che giusto. Subito si pensa infatti a musicisti stranieri che nel santo cosmopolitismo settecentesco hanno operato, talora esclusivamente, su testi italiani; e si va da Händel e Hasse a Haydn e Gluck e Mozart (senza contare tutti i musicisti italiani che hanno operato stabilmente in città straniere). E basta vedere, tanto per fare un esempio, quanti musicisti d’altra nazione hanno messo in musica l’Olimpiade di Metastasio. Del resto la questione non è solo culturale, ma schiettamente musicologica, il che si può mostrare attraverso un solo ma sublime esempio: se io ascolto le due arie di Konstanze nel Ratto del serraglio mozartiano, il mio orecchio corre subito, come a un loro sviluppo organico, alle due di Pamina del Flauto magico, e non già a quelle della Contessa nelle Nozze di Figaro. Il che è quanto dire che è la natura della lingua a determinare fortemente quella della musica che la “traduce”. E da un certo punto di vista non sarebbe sbagliato dire che una trattazione dell’opera che consideri assieme Weber e Bellini, Wagner e Verdi ha prima di tutto un valore “culturale” (anche in questo senso non mancano certo gli spunti intelligenti di Coletti: penso per esempio ai richiami a Richard Strauss).
Ciò detto non si finirebbero di ammirare le arcate e i dettagli (nei quali secondo Hofmannsthal e Warburg abita il buon Dio), di cui questo libro è così generoso. Per esempio la descrizione dei caratteri tipici dei libretti, specie ottocenteschi (ma d’altra parte l’autore, come de Van, dedica pagine apposite a Metastasio): di questi sono offerti, con novità e pertinenza di spogli, non solo i tratti tipici della sintassi e del lessico, ma anche quelli (novità) della metrica, e d’altra parte il tradizionalismo (“fonti” interne) e infine le possibili azioni deformatrici della musica sul testo librettistico e qui a me viene in mente cosa accade nell’aria di Germont del secondo atto della Traviata, dove la musica ripete ogni verso, e qui nessuna meraviglia, ma lo ripete in ordine inverso, con quella che in retorica si chiama antanaclasi (“Tu non sai quanto soffrì il tuo vecchio genitor” – “Il tuo vecchio genitor tu non sai quanto soffrì”). E Coletti non manca di sottolineare casi (come il coro del primo atto della Sonnambula – e lo stesso vale per Casta diva, come notò anni fa Luigi Baldacci) in cui la melodia è strutturata in modo tale (possiamo dirla “infinita”?) da compromettere fortemente la comprensione delle parole, e delle loro stesse partizioni. Non per nulla Bellini è, fra i suoi contemporanei, quello che più ha contato per Chopin.Grande pregio di questo libro è, ai miei occhi, la sua stessa struttura, che si bipartisce in una serie di capitoli sui caratteri generali e sovrastorici dell’opera (italiana) e dopo un capitolo di passaggio la tratta secondo il suo sviluppo storico, dall’opera barocca in giù. In questo senso Da Monteverdi a Puccini viene ad assomigliare a un altro volume ammirevole, L’opera italiana (L’opéra italien) del sempre rimpianto Gilles de Van, posto che questa ha un carattere maggiormente “sociologico” (ad esempio con un capitolo sugli impresari). Così Coletti, non mescolando i due piani (salve ovvie interferenze) può da un lato rilevare molto meglio gli “universali” dell’opera italiana, dall’altra il suo sviluppo storico e i relativi capintesta (in primo luogo Verdi, com’è ovvio). Ma è soprattutto in relazione al primo punto che Coletti sottoscrive le sue tesi originali: tali l’idea che l’opera (seria) sia un incrocio di tragedia (non più possibile nel mondo moderno) e favola, e quella che l’erede dell’opera sia il cinema.
Passando ad altra zona, notevole è la rassegna dell’opera post-pucciniana, generalmente molto poco nota, anche se Coletti sembra assegnarle un’importanza che io non potrei condividere del tutto. Mentre tutte da condividere mi sembrano le sue pagine sul grande Puccini, ivi comprese le intelligenti osservazioni sui fatti musicali che separano la postrema Turandot dalle opere precedenti (recupero dell’aria spiegata ecc.). Se poi volessi indicare un capitolo particolarmente felice di questo libro così felice, credo che opterei per quello sull’opera buffa dal Settecento a Rossini, che fra l’altro si caratterizza per rilievi competenti sulla poco nota opera dialettale napoletana. Un solo dubbio, l’assenza del Don Giovanni di Mozart, la cui intitolazione, “dramma giocoso” è interpretata come equivalente di “opera buffa” sia da de Van (che però ne sottolinea originalità e aspetti “tragici”), sia dallo stesso Coletti e parecchi anni fa, se non ricordo male, da Nino Pirrotta. Ora, titolo a parte, è la stessa natura drammatico-musicale del capolavoro mozartiano a costituire lo scavalcamento dell’opera buffa, ed è proprio in virtù di questo scavalcamento che si spiega almeno in parte la sua fortuna ottocentesca, letteraria (Hoffmann) e musicale (Verdi). A questa stregua forse quanto vi è di “buffo” in quest’opera si potrebbe interpretare all’insegna della categoria, certo ottocentesca, dell’ironia. E insomma la presenza del Don Giovanni in un capitolo sull’“opera buffa” varrebbe forse a indicare la crisi latente dell’opera buffa stessa.
Letto questo libro affascinante ci si può augurare che esso influisca positivamente, per vie aperte o coperte, sui destini dell’opera in musica. Che attualmente possono sembrare anche floridi (ad esempio per la larga diffusione delle opere per via televisiva o cinematografica); ma che per altri aspetti a me sembrano, oggi come oggi, compromessi da vari fattori. Ne citerò due. Il primo è la presenza sempre maggiore di registi stolti, presuntuosi e prevaricatori, ai quali si allea un pubblico il quale va troppo spesso all’opera per assistere a uno spettacolo anziché per ascoltare la musica, come se non fosse poi questa, fondamentalmente, a creare lo spettacolo. Qualche anno fa il grande Luca Ronconi affermò che proprio la presenza di regie personali e inventive aveva aumentato l’interesse per l’opera; e può certo darsi, ma purché esse non facciano dire alla musica (teatrale) ciò che essa assolutamente non dice.
Il secondo fenomeno è, almeno ai miei occhi, forse anche più grave. In due parole: i giovani non sono più in genere interessati all’opera (anche quando lo sono alla musica strumentale), e del resto non lo sono neppure troppo al teatro in genere. Se questo fenomeno vada assieme al crollo degli interessi e delle competenze storiche in generale, non saprei dire, ma certo così è, ed è il pericolo che stringe più da vicino le sorti future, o per dir meglio quasi immediate, dell’opera. Ma come accennato proprio un libro del valore di questo di Coletti, che in ultima analisi sussume caratteri e storia dell’Opera in quelli generali della cultura, potrà opporsi a questa deriva.
enzo.mengaldo@gmail.com
P V Mengaldo insegna storia della lingua italiana all’Università di Padova