Lemmario Brontë
di Monica Pareschi
dal numero di febbraio 2017
Amore
C’è l’amore-relazione di Charlotte e c’è l’amore-passione di Emily. L’amore-relazione muta, si muove, progredisce, si guasta, si aggiusta. L’amore-relazione è educazione all’amore. Alla fine un uomo cieco e sfigurato è condotto all’altare da una ragazza che, anche letteralmente, ne ha fatta di strada. Reader, I married him. L’amore-passione, semplicemente, è: non diviene e, a ben guardare, non nasce neppure. È immanente e minerale. Contiene tutto, e soprattutto: odio, vendetta, invidia, dispetto, rivalsa. È sadico, masochista, dannato e necrofilo. Nella sua incapacità a mutare, è morto in partenza. Non ha bisogno di consumarsi, ma consuma. L’amore-passione non ha compassione.
Casa, cortile, giardino
La casa gotica di Jane Eyre – la camera rossa degli orrori e degli incubi, il collegio sadico-vittoriano, l’antica magione con soffitte segrete che celano mostri, ma anche la dimora raffinata nel parco, piena di salotti con tappeti e tendaggi e boiserie e pianoforti – si sdoppia nella casa della luce con grandi finestre aperte sulla civiltà raziocinante e limitata del giardino e nella casa del buio rozzamente scolpita nella pietra, la casa con l’immenso focolare e feritoie che escludono l’aria, e una corte che la chiude al mondo. La casa del conflitto e della conciliazione; la casa della barbarie e la casa della civiltà, contrapposte e racchiuse in un’unica prigione.
Corpo individuale, corpo universale
Il corpo, in Jane Eyre, è anagrafico, individuale, differenziato. Da lettori, anche senza che il cinema ci venga in aiuto, ci facciamo un’idea abbastanza precisa delle caratteristiche fisiche di Jane, di Rochester, di Blanche Ingram, e infine del corpo mostruoso, debordante, spudorato, torreggiante, desiderante di Bertha Mason. Jane Eyre è il trionfo dell’Io: tenace, assertivo, eccessivo, in fin dei conti profondamente moderno. I corpi di Cime Tempestose li intravediamo riconoscendoli dai guizzi e dai lampi degli occhi, dalle ciocche dei capelli: tratti che si mescolano e rimescolano di continuo e tendono all’unità indifferenziata dell’uno primigenio. Poche e brusche pennellate ci dicono di una Catherine bruna e una bionda, occhi vividi entrambe, una certa insolenza nei modi, di un Heathcliff nero e robusto, di un Linton efebico e slavato, e di loro conserviamo poco altro che un’impressione, seppure fortissima. Il matrimonio degli opposti che chiude il libro non fa che sancire, in realtà, la tensione endogamica che scorre in tutto il romanzo. Uniti, irriconoscibili, i corpi si saldano infine alla roccia che li ha partoriti, al vento, alle nuvole. Il corpo sociale, individuale e prosaico nel romanzo di Charlotte torna alla sua origine universale e poetica in quello di Emily.
Denaro
Nel mondo arcaico di Cime tempestose il denaro è in primo luogo strumento di sopraffazione, risultato di inganni e ruberie, dote o eredità sancita da complessi legami di sangue, appartenenza di genere, primogeniture e passaggi di proprietà imposti da una legge arbitraria e ancora feudale. In primo luogo è legato alla terra e al suo sfruttamento. Nel romanzo vittoriano di Charlotte il passaggio di denaro è invece regolato dalle dinamiche fluide dell’era borghese, dall’industria, dai commerci, e persino dal sapere come merce di scambio, e dunque acquisibile anche attraverso le professioni femminili, prima fra tutte quella di istitutrice. È il denaro di Jane, infine – ereditato ma pur sempre frutto di traffici – a rendere possibile il movimento sociale che sostiene il comune desiderio paritario di Jane e di Rochester, a fare da contrappunto a quel ribaltamento finale in cui, letteralmente, la donna porta l’uomo all’altare.
Follia
La follia è esterna, confinata e infine estromessa da Thornfield ma è endogena a Wuthering Heights. Se Bertha Mason è il rimosso sessuato e animale della femminilità vittoriana, si può dire che a Heathcliff tocchi il singulto onanistico della sessualità duale negata, o la compensazione femminicida di una castrazione autoinflitta?
Mondo
L’altrove nominato di Jane Eyre – Parigi, Madeira, Giamaica – è un altrove imprecisato e innominabile in Cime Tempestose: qual è l’origine di Heathcliff? Dove ha guadagnato i soldi che gli permettono di tornare, rovinare il fratellastro Earnshaw e appropriarsi della casa? E persino: di che colore è esattamente la sua pelle? Scura, ma fino a che punto?
Nomi
Heathcliff, naturalmente. Lockwood. Ma anche Brocklehurst, Gateshead, Thornfield, St. John. E poi Heathcliff/Heathcliff, Catherine/Catherine, Linton/Linton. I nomi dicono il paesaggio, la consistenza, la geografia, le relazioni: rupi, brughiera, legno, campi, spine, cancelli, chiese, boschi, l’uno e il due.
Pietra
In Jane Eyre tutto è plastico, progressivo, in movimento. Si torna, ma mai nello stesso luogo: perché i luoghi mutano, bruciano, rovinano, si fanno altro. Così Gateshead, Thornfield, Moor House. Nel romanzo di Emily vince la pietra: tutto è immutabile, statico, conchiuso; lo spazio illusorio fra Thrushcross Grange e Wuthering Heights è il palcoscenico obbligato dell’andirivieni perpetuo dei personaggi, e c’è qualcosa di dantesco nel loro supplizio. Quel tratto d’erba, erica e roccia è la beffa del carcerato. Tutto è rupe e secca brughiera. Spazio-prigione e persona si equivalgono. Heath-cliff.
Ridere
Si impara da piccoli, e non è la prima cosa che viene in mente pensando alle bambine di salute cagionevole in grembiale e pettorina, compunte al desco del vicariato nordico, raggelate nel Deo gratias davanti alle scodelle di porridge, e poi alle giovani istitutrici nerovestite e pallide, certo più avvezze ai freni imposti dalla modestia vittoriana. Eppure è quasi certo che si ridesse anche, a Haworth, oltre a leggere pregare bere studiare patire morire di tosse e di freddo. Ridono Jane e Rochester, flirtando con gusto e beccandosi e rimbeccandosi per tutto il tempo del loro corteggiamento, ho riso io con loro inventandomi la lingua divertita della punzecchiatura e dell’understatement amoroso. Ride Jane descrivendo i damerini impomatati e vagamente beoti che circondano Blanche Ingram: ride, di loro e perfidamente, Blanche Ingram. Ride persino quel truce monolite che è Heathcliff, o meglio sghignazza sadico mentre umilia e ferisce. Ride la governante Nelly, ai danni del macilento, antipatico Linton Heathcliff, ride di lui e lo sbeffeggia quell’impertinente di Cathy Linton. Il riso, sottile, malizioso, robusto, godurioso in Jane Eyre risuona invece tragico, cupo o grottesco in Cime Tempestose, culminando nello humour bislacco di quel babau puritano che è il servo Joseph.
Ri-tradurre
Trovare la voce, e le voci: l’adorabile voce burbera di Rochester, tutta gaffe e tenerezze. La voce abbaiante e rabbiosa di Heathcliff: il lupo, il cane. La voce stizzosa di Joseph, quella troglodita e innamorata di Hareton, la voce inaffidabile di Nelly e quella pettegola della signora Fairfax. Sono debitrice di tutte le precedenti traduzioni che conosco, comprese quelle cinematografiche: in particolare della Jane Eyre “espressionista” di Robert Stevenson (La porta proibita, 1944) e di quella gotica di Cary Fukunaga (2011); del film di William Wyler, La voce nella tempesta (1939) e di quello di Andrea Arnold (presentato a Venezia nel 2011 e mai distribuito in Italia: splendido il primo tempo). Di un fumetto intitolato anch’esso La voce nella tempesta, che mi aveva turbata da bambina e non ho più dimenticato. Del libro di Sandra Gilbert e Susan Gubar The Madwoman in the Attic (1979). Di Laurence Olivier, del femminismo e di Freud. Del mio tempo.
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M Pareschi è traduttrice