Lo storico dell’arte Bruno Toscano e l’antropologo Luciano Giacché si confrontano
dal numero di maggio 2017
Bruno Toscano: La parola che subito si accompagna al terremoto, dopo lo smarrimento iniziale, è “ricostruzione” che ingenera però terribili equivoci su ciò che occorre ricostruire. Serve quindi una corretta diagnosi della situazione delle zone colpite dal terremoto, diagnosi che va rivolta più agli aspetti socio-economici che a quelli artistico-patrimoniali. Infatti quando si parla di “ricostruzione” si dovrebbe parlare anzitutto di un progetto profondamente innovativo sul piano della produttività delle aree disastrate. Questo per una semplice ragione, su cui è necessario riflettere: analizzando il percorso costitutivo dei patrimoni familiari e comunitari nelle zone terremotate, che in larga parte coincidono con quelle appenniniche, si rileva che la loro formazione è derivata da attività economiche capaci di assicurare la tenuta demografica del territorio e di garantirne lo sviluppo, al punto da poter investire il surplus delle risorse nella realizzazione di palazzi, cappelle, altari, sculture, affreschi, ciò che oggi chiamiamo “beni culturali”. Partendo da questa considerazione ben si comprende che anche la conservazione del patrimonio risponde alle stesse regole della sua costituzione. Occorre quindi mettere in campo la capacità e la volontà di impegnarsi in progetti di lungo termine per la ricostituzione di valori e di rendite legate al territorio, altrimenti gli interventi si riducono a una riproposizione puramente edilizia, sostanzialmente priva di futuro, per di più con una spesa enorme, com’è avvenuto dopo il terremoto del 1997. I finanziamenti assegnati all’Umbria per quel sisma sono stati di tutto rilievo (e sarebbe anzi opportuno conoscerne la misura), ma non sono riusciti ad arrestare i processi di declino che erano già in corso da tempo in questa parte dell’Appennino.
Luciano Giacché: A proposito dei fondi, l’Osservatorio regionale sulla ricostruzione ha valutato in più di 5,3 miliardi di euro le risorse finanziarie messe in campo dopo il terremoto del 1997, riferite però a un’area più vasta di quella ora colpita. Questa stessa zona aveva già ricevuto ingenti finanziamenti per il precedente terremoto del 1979 e la loro sommatoria raggiunge un importo mai quantificato, ma certamente del tutto sproporzionato rispetto sia alle dimensioni demografiche, sia ai risultati ottenuti. Per comprendere questo scarto non ci aiuta una semplice rendicontazione contabile, ma è necessario un bilancio critico degli impieghi, considerato che la ricostruzione edilizia post 1997 ha assorbito oltre il 67 per cento delle risorse finanziarie, mentre alle attività produttive è stato destinato solo lo 0,8 per cento. L’attenzione è stata rivolta più agli oggetti che ai soggetti, più alle abitazioni che agli abitanti ed è mancata, e ancora latita, una riflessione sull’economia della montagna.
Bruno Toscano: La realizzazione della base economica che ha reso possibile nei secoli la costituzione dei patrimoni si deve a un fenomeno complesso. Le zone appenniniche, e la stessa regola vale per molte valli alpine, sono caratterizzate da economie stagionali, che devono ricorrere ad alternative extra-territoriali. Il caso della Valnerina è particolarmente interessante: fin dal tardo medioevo una delle possibilità era di andare a lavorare a Firenze, consuetudine che continua con il Granducato. Questo spiega la diffusa presenza di numerose opere d’arte di celebri artisti toscani che ornavano le chiese della valle del Campiano, tanto da connotarla come una “isola toscana”. Queste sorprendenti presenze erano in realtà il risultato di una competente committenza, che impiegava le rendite provenienti dal lavoro extra-territoriale in acquisti di opere d’arte che arricchivano il patrimonio culturale dei luoghi d’origine. Un esempio, fra i tanti, è offerto dal quadro datato e firmato dal fiorentino Francesco Furini, il suo primo dipinto a soggetto sacro, ormai ben noto a tutti gli specialisti di pittura del primo Seicento, commissionato per la chiesa di San Bartolomeo a Todiano di Preci. Queste vicende, che andrebbero attentamente valutate, ci avvertono che riprogettare l’economia dell’area è un compito assai complesso.
Luciano Giacché: In effetti la mobilità stagionale ha contribuito in modo decisivo alla prosperità di questi luoghi trattenendo la popolazione nonostante i ricorrenti disastrosi terremoti. Le terribili sequenze sismiche nel Settecento e nell’Ottocento hanno distrutto i paesi, ma non hanno intaccato le risorse strategiche dell’economia del tempo fornite dal bosco e dal pascolo, quindi legno, carne, lana, latte. La situazione è precipitata quando la montagna ha perso il suo primato nella produzione di materie prime e di beni alimentari e al contempo la mobilità stagionale si è spezzata, facendo mancare l’apporto delle risorse extra-territoriali.
Bruno Toscano: Negli ultimi vent’anni si sono accesi focolai di ripresa spontanea dell’economia basata sulla terra, a carattere agro-silvo-pastorale, per cui si potrebbe disegnare una mappa con le località in cui sono sorte aziende a conduzione familiare che hanno ricominciato a investire nella terra. Su questa mappa si potrebbero segnare: Ceseggi, Opagna, Civita, Colforcella, Bugiano, Trivio, Ruscio, Rescia, Terzone e altre ancora. Certo sono realtà minuscole, ancora non ben conosciute, che però mandano segnali significativi di una possibile ripresa economica legata alle risorse dei territori.
Luciano Giacché: Queste presenze ancora puntiformi dovrebbero comporsi in un fitto tessuto per potersi affermare, ma per favorire questo processo occorre una diversa impostazione programmatica da parte delle istituzioni nel riconoscimento della diversità strutturale: occorre che lo stato riconosca la profonda diversità delle zone montane, le cui produzioni artigianali, di ridotta quantità, sono assurdamente sottoposte alle stesse normative dei prodotti industriali, offerti a prezzi che mettono fuori mercato le produzioni di qualità. La convenienza economica non si cura della sostenibilità ambientale (come rivela il trasferimento degli allevamenti dai pascoli montani alla stabulazione fissa nelle stalle di pianura) trasformando gli animali liberi all’aperto in “macchine” da carne e da latte con disastrose conseguenze per la salute dell’ambiente e delle persone.
Bruno Toscano: Servirebbe un progetto che persegua anche un’innovazione culturale, una nuova ecologia dell’alimentazione, il che è esattamente ciò che sta avvenendo nei focolai che citavo impegnati in produzioni biologiche e rispettose dell’ambiente. Se invece si continua a ragionare in termini di economia di massa, priva di garanzie circa l’origine, si hanno conseguenze paradossali, come la produzione in Valnerina di salumi con suini che provengono dall’estero a opera di imprese di trasformazione che godono di sostanziosi contributi, a scapito delle aziende familiari, impegnate nella produzione di alimenti legati al territorio e di assoluta qualità. Di recente è stato ripreso, ancora timidamente, l’allevamento allo stato semibrado di suini neri, con produzioni di ottima qualità, riscoprendo una razza autoctona con la cinta bianca sul tronco, storicamente documentata nell’iconografia di Sant’ Antonio Abate, frequente nelle chiese della Valnerina. Oltre alla competenza dei produttori occorre l’opera di organi decisionali sensibili e attenti per valorizzare il paniere alimentare territoriale come un vero e proprio patrimonio culturale. Il problema è che sta andando di moda accantonare tutto ciò che sa di conoscenza, al punto che spesso il contributo esperto è temuto come un ostacolo. Nell’alternativa di cui parliamo non c’è nulla di bucolico. Personalmente sono rimasto colpito, nel visitare una piccola azienda a Trivio di Monteleone, dalla raccolta dei fagioli per mezzo di una sfagiolatrice ultramoderna, che raccoglie i baccelli, seleziona i semi e li confeziona in sacchi. Quanto a Castelluccio, la mia generazione lo ricorda quando c’erano migliaia di pecore e una produzione limitata di lenticchie di altissima qualità. L’insediamento, per la verità modesto, azzerato dal terremoto, per la sua posizione, per il magnetismo culturale e ambientale che esercita il vasto altopiano, al centro di una zona impervia, potrebbe diventare il capoluogo di una ripresa moderna, ovviamente con supporto europeo, dell’economia agro-silvo-pastorale appenninica.
Luciano Giacché: Per raggiungere questo risultato bisogna ripensare l’economia della montagna nel terzo millennio, a partire dalle risorse che il territorio offre, assecondando la sua natura e recuperando la sua storia. Il caso emblematico è quello della pecora Sopravvissana intimamente legata a questa montagna, come denuncia il suo nome, la cui avventura è iniziata nel 1792 con l’acquisto di un gregge di pecore merinos spagnole per aumentare la produzione della lana nello stato pontificio. Ci sono voluti 150 anni per il formale riconoscimento della razza, particolarmente rinomata per il pregio della lana, che, in anni recenti, da ricchezza è diventata un costo, perché va smaltita come rifiuto speciale. Oltre a questo, la produzione di una minore quantità di latte rispetto ad altre razze ne ha decretato il progressivo abbandono. Eppure basterebbe un solo industriale tessile interessato all’acquisto della lana per ribaltare questa ingiusta condanna, recuperando una dimensione produttiva di grande utilità. La posta in gioco è, infatti, molto alta: l’unica certezza di questa zona è che ci sarà un altro terremoto, con la sola inquietante incertezza del quando e del dove. Da un lato, non è più sufficiente riparare i danni subiti dalle abitazioni, ma è necessario metterle al riparo da futuri danni; dall’altro, occorre sviluppare attività produttive legate al territorio, ma esercitate con modalità innovative per favorire il rinnovo generazionale e per conferire alla qualità dei prodotti quel carattere di unicità che può ottenere un apprezzamento tale da fornire una solida base all’economia locale.
Bruno Toscano: Per sintetizzare gli argomenti che abbiamo trattato si potrebbe dire che come la costituzione dell’economia nelle zone appenniniche ha avuto una leva endogena, così dovrà averla anche la sua ricostituzione. Ciò non toglie che questa endogenia debba provvedersi del massimo di modernizzazione. Forse, quando “L’Indice” ci ha chiesto un contributo, si attendeva da noi un discorso sul tragico presente e sul futuro del patrimonio artistico colpito dal sisma, mentre la nostra conversazione è slittata verso altre direzioni, suggerite dalla convinzione che, in un momento in cui è necessario assumere scelte strategiche, più che sulle specifiche conseguenze dell’evento disastroso è importante riflettere globalmente sulle condizioni di un nuovo, possibile sviluppo.
bruno.toscano@alice.it
B Toscano è professore emerito di storia dell’arte moderna all’Università di Roma Tre
lgiacche@gmail.com.it
L Giacché ha insegnato antropologia dell’alimentazione all’Università di Perugia