Vite miserabili trasformate in leggenda
recensione di Mariolina Bertini
dal numero di febbraio 2017
Pierre Michon
VITE MINUSCOLE
ed. orig. 1984, trad. dal francese di Leopoldo Carra
pp. 204, € 18
Adelphi, Milano 2016
“Il mio approccio alla scrittura – ha raccontato in un’intervista Pierre Michon – è nutrito di superstizioni e di magia. Non mi metto alla scrivania ogni mattina, non lavoro in modo ragionevole. Il mio rapporto con il testo è un rapporto di lotta, di rifiuto, di violenza reciproca”. La magia che Michon persegue nel suo duello con la materia della sua opera è quella capace di dare un corpo al passato, di resuscitarlo, di renderlo visibile; è l’elemento centrale di Vite minuscole ed è apparentata al miracolo della grande pittura che, da Rembrandt a Goya a Van Gogh, gli ha fornito l’ispirazione per molti dei suoi racconti, incentrati sul mistero della creazione artistica considerato da punti di vista sempre spaesanti.
La stesura di Vite minuscole, dal 1981 al 1984, è una svolta fondamentale nella vita di questo scrittore che, cresciuto in un ambiente profondamente rurale, figlio di una coppia di maestri elementari, ha voltato le spalle al mondo delle sue origini prima per gli studi universitari, poi, nel 1968, per la politica militante e per il teatro impegnato. Dopo anni di erranza segnati da un intenso desiderio di scrivere, ma anche da un sentimento schiacciante d’impotenza, Michon scopre all’inizio degli anni Ottanta quel che sbloccherà il suo impulso creativo: il desiderio di ridare voce alle umili e ormai dimenticate figure della sua infanzia. Vi riuscirà mettendo a punto uno stile aulico e immaginoso, che nella sua ricchezza un po’ desueta sembra in forte contrasto con la realtà dimessa del suo paese d’origine, la Creuse. Ma proprio quel contrasto è la cifra originalissima della sua scrittura, e fa sì che il libro , pur senza avere un immediato successo commerciale, sia molto apprezzato dalla critica e in breve venga considerato in Francia un classico del Novecento. La traduzione amorosamente cesellata di Leopoldo Carra gli rende piena giustizia.
Ognuno dei racconti che compongono Vite minuscole ricostruisce, in modo esplicitamente congetturale e fantasioso, la biografia di un personaggio che Michon ha conosciuto o di cui ha sentito parlare nell’infanzia o nella prima giovinezza. Personaggi non illustri – per questo le loro vite sono “minuscole” – ma ognuno con un suo carattere e un suo destino che si rivelano, osservati da vicino, tutt’altro che insignificanti. È la parte d’ombra e di mistero di queste vite miserabili a trasformarle in leggenda, come le vite dei santi medioevali per i loro ingenui e devoti contemporanei. L’orfano André Dufourneau va a cercar fortuna in Africa, dove si arricchisce. A un certo punto, non darà più notizie di sé. Forse nella sua scomparsa non c’è nulla di romanzesco; ma la nonna di Michon, Élise, che a suo tempo gli ha insegnato a leggere e a scrivere, fantastica sul suo destino trasformandolo in un romanzo esotico. Un vecchio analfabeta, le père Foucault, vive gli ultimi mesi della sua esistenza di clochard in ospedale; lo scrittore, suo compagno di stanza, vede in lui una figura incredibilmente nobile della sofferenza umana, che sembra uscita da un quadro di Rembrandt. Otto esistenze di contadini, di poveri, di falliti, sottratte all’oblio raccontano la civiltà rurale scomparsa della quale hanno fatto parte.
Nella ricostruzione del mondo contadino intrapresa da Michon non c’è nulla di sociologico. E nemmeno si tratta della rievocazione nostalgica di un ambiente idealizzato, rappresentato con accenti idilliaci in contrapposizione con il regno prosaico dell’industria e del denaro. Quello di riportare in vita l’universo povero, frusto e crudele legato ai suoi primi ricordi è per Michon una sorta di imperioso dovere, analogo al “dovere di memoria” dei sopravvissuti di una catastrofe. “Ero nella Creuse con mia madre, – ha ricordato Michon nel saggio Le roi vient quand il veut. Propos sur la littérature, del 2007 – passeggiavamo e sono finito nel cortile e nel giardino della scuola dove ho passato la mia infanzia. È tutto in abbandono, e dove mio nonno coltivava i suoi fiori, c’è l’erba alta: il vecchio topos dei luoghi cari che cadono in rovina. E di colpo, mi son detto: ‘Ma pezzo di cretino, perché non scrivi su queste piccole cose che hai conosciuto, che hai vissuto, su questi morti? Perché non li chiami, i tuoi morti?’. Allora la vita di Dufourneau, la prima che ho scritto, è venuta come una specie di assoluta liberazione, un qualche cosa che non è nel falso e che mi appartiene”. La verità che Michon persegue in Vite minuscole è comunque una verità artistica, non documentaria. Spesso il narratore avanza supposizioni quando non conosce i fatti, e racconta con suggestiva evidenza scene che “avrebbero potuto aver luogo”, senza affermarne la realtà. Intorno ai personaggi evocati fluttua così una sorta di nebbia, che sottolinea la loro lontananza nel tempo e la distanza irrevocabile introdotta dalla morte.
maria.bertiniu@unipr.it
M Bertini insegna letteratura francese all’Università di Parma