Mettersi nei panni altrui
recensione di Carlotta Beretta
dal numero di marzo 2017
Neel Mukherjee
LA VITA DEGLI ALTRI
ed. orig. 2014, trad. dall’inglese di Norman Gobetti
pp. 607, € 20
Neri Pozza, Milano 2016
Con questo romanzo Neel Mukherjee affronta un periodo controverso della storia indiana: il movimento naxalita della fine degli anni sessanta. Mentre l’Europa e gli Stati Uniti erano attraversati dalle lotte studentesche e dalle contestazioni alla guerra del Vietnam, a Calcutta e nel Bengala studenti e contadini si allearono in un progetto rivoluzionario di stampo maoista. L’obiettivo era di migliorare le terribili condizioni dei braccianti nelle campagne; i mezzi erano la guerriglia, il terrorismo e gli assassinii politici. Il prologo del romanzo, l’omicidio-suicidio di un contadino e della sua famiglia, stabilisce il tono della narrazione, che non si fa remore a descrivere con grafica precisione la disperata situazione dei braccianti, le efferate azioni dei naxaliti e la feroce repressione della polizia.
La stessa brutale precisione viene applicata nel raccontare le dinamiche di una famiglia della classe media bengalese, i Ghosh, altro grande centro del romanzo. La spaziosa casa al 22/6 di Basanta Bose Road, dove i membri vivono in ordine di importanza, col patriarca all’ultimo piano e la vedova in disgrazia e i suoi figli al piano terra con la servitù, è teatro di scontri, gelosie, piccole tragedie e mutevoli alleanze. Il precario equilibrio domestico viene improvvisamente scosso dal dissesto finanziario dell’azienda famigliare, la Charu & Sons, e dalla scomparsa del nipote più grande, Supratik, che decide di unirsi ai naxaliti nelle terre al confine tra il Bengala e il Bihar.
Strattura duplice, epilogo doppio
Il romanzo poggia su una struttura duplice. Mentre seguiamo lo svolgersi del grottesco dramma borghese dei Ghosh, leggiamo della lotta naxalita di Supratik attraverso le lettere che il ragazzo scrive alla donna amata, senza però mai spedirle. Le lettere si interrompono quando Supratik torna a casa dopo due anni, con l’intento di continuare a combattere in città. Tuttavia il sogno rivoluzionario di Supratik sarà sconfitto dalla repressione della polizia. La vita degli altri si chiude con un doppio epilogo. Nel primo, Soma, il bistrattato figlio della vedova Purba, vince la medaglia Fields (il “nobel” per la matematica). Nel secondo, ambientato nel 2012, vediamo gli eredi di Supratik portare avanti la rivoluzione naxalita nelle campagne, anche grazie ad un metodo per far saltare in aria i ponti ferroviari inventato proprio dal giovane. Nonostante il nobile intento di migliorare la vita dei braccianti, questo obiettivo è perseguito all’altissimo prezzo di altre vite. Quella che era una speranza di cambiamento si rivela così una lotta sanguinaria.
La riflessione del romanzo ruota proprio intorno al costo umano del movimento naxalita. Ciò nonostante, La vita degli altri non è un invito al pacifismo, ma semmai all’empatia, a mettersi nei panni altrui. La citazione in esergo al romanzo, da cui il titolo, è tratta da Una perfetta felicità di James Salter e recita: “Come facciamo a immaginare come dovrebbero essere le nostre vite se non le illumina la luce delle vite altrui?”. Da un lato, i membri della famiglia Ghosh non hanno il benché minimo interesse per le condizioni delle classi inferiori e si accaniscono su Purba e i suoi figli. Al contrario, la loro unica preoccupazione è mantenere intatta la propria reputazione con parenti, conoscenti e vicini di casa. Dall’altro lato, Supratik, fervente sostenitore dei subalterni, non si cura minimamente di ferire le persone cui vuole bene o di sacrificare l’anziano e onesto Madan per portare a termine i suoi piani. Entrambi i fronti, dunque, non sono realmente in grado di comunicare e rapportarsi agli altri. In questo modo il romanzo non designa un vincitore morale, ma traccia uno spettro di posizioni, rimanendo ideologicamente ambiguo.
Nonostante tratti di un movimento rivoluzionario che coinvolge i contadini, La vita degli altri è soprattutto un grande romanzo borghese, a metà tra i Buddenbrook e Pastorale americana. Il punto di vista dei subalterni emerge raramente ed è quasi sempre filtrato da quello di Supratik o degli altri giovani della borghesia che hanno sposato la causa naxalita. L’unica voce autonoma è quella di Madan, il vecchio cuoco di famiglia, e vittima sacrificale dei piani del giovane rivoluzionario. Questo succede perché lo sguardo dell’autore ritorna continuamente a esaminare, ironico e pietoso al tempo stesso, la classe media di Calcutta e il suo fallimentare ruolo politico. La decadenza della famiglia Ghosh rispecchia il disfacimento della classe dirigente bengalese che non è stata in grado di assumere un ruolo di guida dopo l’Indipendenza, lasciando dunque spazio al sorgere di movimenti rivoluzionari, populismi e a frequenti commissariamenti da parte del governo centrale. La lucida prosa di Mukherjee, nell’ottima traduzione di Norman Gobetti, ci conduce dunque in un universo borghese dai colori e sapori insoliti, eppure a tratti così famigliare.
carlotta.beretta2@unibo.it
C Beretta è dottoranda in studi letterari e culturali all’Università di Bologna