Coniugare una fresatrice all’imperfetto
di Davide Dalmas
dallo Speciale Natalia Ginzburg del numero di ottobre 2016
Chi legge Natalia Ginzburg ascolta una voce, che arriva prima delle storie raccontate, delle persone – reali o inventate – o degli ambienti descritti. Ora un libro, curato da Domenico Scarpa (Natalia Ginzburg, Un’assenza. Racconti, memorie, cronache. 1933-1988, pp. 366, € 18, Einaudi, Torino 2016), si propone di comprendere meglio e assaporare il formarsi e il cambiare di questa voce: le sue diverse modulazioni, comprese le stonature o comunque le emissioni considerate più deboli dall’autrice stessa, quelle ritenute non abbastanza significative da entrare in un libro. Si intitola Un’assenza, perché prende il nome dal primo testo che Natalia (ricorre il centenario della nascita: 14 luglio 1916) considerò non puerile, scritto nel luglio 1933, a diciassette anni, e pubblicato solo quattro anni dopo, su “Letteratura”.
Scopo dichiarato del volume nel suo complesso – e non soltanto del saggio del curatore che si intitola Vicende di una voce – è “rendere visibile il cammino di un autore che si sperimenta e procede nella scrittura breve, primo genere di composizione cui affidi il proprio talento” e quindi “ricostruire la storia di una voce che racconta”. Per farlo mette insieme testi ben noti, inseriti più volte da Natalia Ginzburg nei suoi volumi, altri rimasti invece dispersi su riviste o quotidiani e anche qualche inedito, reperito nel Fondo Carocci della Fondazione Primo Conti di Fiesole o nell’archivio Eredi Ginzburg di Bologna. Ad esempio, tra gli scritti più dimenticati, e forse inattesi, alcuni sono di argomento industriale: cronache di visite nelle fabbriche torinesi lungo la Dora, denuncia di condizioni di lavoro estremamente nocive e pericolose, e soprattutto un testo del 1952 che rimase inedito ma in qualche modo anticipava le riflessioni che Vittorini proporrà una decina di anni dopo sul “Menabò”, sulla letteratura che stenta a porsi all’altezza del tempo industriale. Per Ginzburg i primi tentativi di scrittura sull’industria – ben prima dei libri di Ottieri o di Volponi – erano “brutti romanzi, e non potevano essere letti da nessuno: né dagli operai, né da altri”, perché non le pareva ancora possibile “scrivere di una fresatrice in un romanzo così come si scrive di un tavolo o di una sedia”.
Visibilità, provenienza e genere dei testi raccolti sono molto diversificati, come indica il sottotitolo necessariamente plurale: prima vengono i racconti, poi – insieme – le memorie e le cronache; una caratteristica formale, però, li riunifica, ed è la brevità, un criterio certo relativo, ma la cui importanza era ben chiara all’autrice di un libro come Cinque romanzi brevi. Si potrebbe dire che il libro unisce, nel segno della brevità, storie raccontate da Natalia, la sua storia personale, e come questa ha incontrato la storia. La storia del Novecento, a partire dalle persecuzioni razziali e dalla repressione fascista, segna profondamente l’identità della scrittrice, perfino nel nome. I primi testi sono pubblicati col nome anagrafico: Natalia Levi, poi col nome coatto (ma scelto in modo significativo) Alessandra Tornimparte; infine quello che diventa il suo vero, definitivo: Natalia Ginzburg, assumendo su di sé la Memoria del marito ucciso.
Scarpa, che ha già curato diverse edizioni di libri ginzburghiani, offre qui notizie sui testi molto ampie e ricche, citando molti documenti, appunto “per ricomporre la storia di una voce dentro la Storia”…
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