Camminar guardando, 39
di Laura Iamurri
Gli argini che da poco più di un secolo contengono e disciplinano il corso urbano del Tevere ne hanno ridisegnato completamente l’aspetto, incidendo in maniera profonda sul rapporto tra la città e il suo fiume; hanno meritoriamente sottratto la prima alle ricorrenti e distruttive inondazioni, ma a prezzo di un isolamento del secondo, di fatto – come ha scritto Sandra Petrignani – “relegato nel fondo del canyon costituito dai muraglioni”, e dunque divenuto “lontano, ininfluente, dimenticato” per la maggior parte degli abitanti di Roma.
Il progetto portato avanti con tenacia da Kristin Jones e dall’associazione Tevereterno ha lavorato invece su un’idea di riconciliazione tra la città e il fiume, immaginando una “piazza fluviale” da realizzare nell’unico tratto in cui i muraglioni sono rettilinei e si fronteggiano mantenendo un legame visivo speculare e diretto. L’ipotesi concettuale è dunque quella di una piazza rettangolare attraversata dal fiume, delimitata da due ponti – Ponte Sisto e Ponte Mazzini, che ne costituiscono i lati brevi – e dalle banchine che li uniscono: è qui, in questo spazio visionario denominato Piazza Tevere, che si snoda Triumphs and Laments, il progetto più ambizioso di William Kentridge, esteso sui 550 metri del muraglione della riva destra, dal lato di Trastevere, corrispondente al tratto del lungotevere che da Piazza Trilussa, costeggiando la Villa Farnesina, risale il corso del fiume fino all’altezza del carcere di Regina Coeli.
Rispetto al consueto gran teatro visivo, riservato in questa occasione solo alla cerimonia inaugurale, Kentridge presenta a Roma una forma scarnificata del suo lavoro, concentrata esclusivamente sul disegno e monumentale come mai prima d’ora. Messa da parte l’intermedialità sontuosa dei suoi montaggi visivi e spaziali, l’artista sudafricano ha affidato il racconto a gruppi e/o figure ottenute mediante una pulitura selettiva dello sporco accumulato sui muraglioni: il risultato è una successione di immagini che emergono come ombre dal chiarore del travertino pulito, e che in un tempo relativamente breve sono destinate a essere riassorbite dal nuovo e inevitabile deposito di inquinamento e sporcizia. L’opera ha quindi un carattere effimero e s’inscrive temporaneamente nella vertiginosa stratificazione storica dell’Urbe. Alla suggestione della caverna platonica, insita nella teoria di ombre proiettate sul muro e più volte evocata dall’artista nelle sue conferenze, si aggiunge una dimensione temporale, quasi ad accompagnare la riflessione sulla storia dispiegata sugli argini, e condensata nella processione di immagini slegate tra loro, con la consapevolezza della caducità delle opere umane.
Per il momento, un corteo di circa ottanta figure alte fino a dieci metri attira l’attenzione anche del più distratto dei passanti. Dall’alto della riva sinistra, dal Lungotevere dei Tebaldi, o meglio ancora dalla banchina sottostante, è possibile seguire lo snodarsi di un racconto che procede per assonanze, ignorando l’ordine cronologico degli eventi. Gli episodi scelti con cura riassumono attraverso trionfi e lamenti, vittorie e sconfitte, una storia che rimonta fino alla fondazione di Roma ma che è intrisa dello sguardo contemporaneo di un artista consapevole come pochi altri della violenza della storia. Nelle parole dello stesso Kentridge, registrate a margine della realizzazione di Triumphs and Laments, “nella storia ad ogni trionfo corrisponde il lamento per la sconfitta di qualcun altro. Il mio è un modo di mettere insieme figure della storia italiana e farle conversare sul fiume”. Anche se poi, a ben vedere, i lamenti superano di gran lunga i trionfi.
Così al corpo di Pier Paolo Pasolini riverso a terra risponde quello di Remo, memento dell’origine violenta di Roma; a pochi passi un altro corpo, quello di Aldo Moro, torna nella forma depositata nella memoria di molti, quella della fotografia che lo mostra all’interno della Renault 4 in cui fu trovato a via Caetani. E ancora le spoglie della conquista di Gerusalemme che rimandano ai rilievi dell’Arco di Tito e il rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943, Marco Aurelio e Mussolini, le alterne vicende della Chiesa e dei papi e l’eterno spaventoso potere dell’acqua, evocato nella versione contemporanea dei naufragi e degli sbarchi di Lampedusa. La storia dell’Italia repubblicana riecheggia e riattualizza l’asprezza della storia antica; immagini di atti brutali, di fughe e di sofferenze, si alternano a figure che portano sulla scena la grande storia dell’arte (Apollo e Dafne, Estasi di Santa Teresa) e del cinema. Ma se la consapevolezza della storia dell’arte e dell’inevitabile confronto con un contesto impressionante è implicita anche nella progettazione di un intervento tutto “per via di togliere”, è un’attitudine alla trasfigurazione fiabesca e surreale quella che trasforma la Fontana di Trevi in una vasca da bagno nella quale si abbracciano Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, perfettamente riconoscibili eppure capaci di produrre un effetto di disorientamento per il carattere incongruo della loro collocazione. La vastissima iconografia, la qualità interpretativa del disegno, il carattere fantasmatico delle apparizioni riportano in vita e al tempo stesso riscrivono frammenti di una storia plurimillenaria.
La selezione degli avvenimenti e la loro traduzione in immagini ha d’altra parte un’affascinante ricaduta sociale, che sembra dare corpo alle aspirazioni più nobili dell’arte cosiddetta pubblica: non è raro incontrare piccoli gruppi di persone che discutono sull’identificazione delle figure e degli episodi cui fanno riferimento, che si indicano reciprocamente gli eventi noti oppure chiedono ad altri informazioni e opinioni sulle immagini meno immediatamente riconducibili a fatti storici ben conosciuti o presenti alla memoria collettiva. Il fregio di Kentridge invita alla condivisione e allo scambio, mette in relazione le persone tra loro nell’immediatezza fisica della loro presenza in situ. Lo stesso artista, del resto, non si è risparmiato nella costruzione di un rapporto con la città: questo desiderio è apparso evidente nella settimana che ha preceduto l’inaugurazione di Triumphs and Laments, nel corso della quale una serie di iniziative collaterali ha permesso al pubblico di vedere i disegni preparatori esposti al Macro insieme ai video nei quali Kentridge racconta il suo lavoro; e di incontrare l’artista in contesti diversi tra loro come l’American Academy in Rome, la British School e ancora il Maxxi, che aveva ospitato una presentazione del progetto per Roma nell’estate del 2014, quando la sua realizzazione sembrava impossibile a fronte del disinteresse da parte dell’amministrazione capitolina.
Oggi, messe da parte anche le ultime polemiche estive sulla collocazione degli stands commerciali che hanno rischiato di coprire il lungo fregio, rimane un magnifico racconto in figure, che trova una sua straordinaria unità anche nel ritmo spezzato della composizione. Kentridge ha più volte ricordato il fregio della Colonna Traiana, suggerendo l’idea di un metaforico “srotolamento” della cronaca figurata scolpita nel marmo; tuttavia, la concatenazione degli eventi che procede senza soluzione di continuità nel rilievo elicoidale romano viene sostituita, in Triumphs and Laments, dalla scelta di presentare le immagini isolate l’una dall’altra, affidando la continuità della narrazione alla successione delle singole figure, all’andamento processionale del corteo, all’immenso spazio murale occupato dalla sfilata di ombre. Ma se le figure sono isolate, è il movimento necessario a coglierne l’intera sequenza che imprime all’insieme un ritmo che è quello della percezione dell’immagine in movimento. Non basta un colpo d’occhio per cogliere l’insieme: è necessario spostarsi, percorrere il lungotevere o la banchina, introducendo così una relazione che coinvolge inevitabilmente i corpi e che fa i conti con i tempi individuali, il tempo della percezione e il tempo che ognuno impiega a fare il suo percorso. Magari ripensando all’ambizione che ha guidato l’intero progetto di Kentridge, che le persone che percorrono questo inconsueto disegno murale “possano riconoscere immagini di una storia familiare ma anche reinterpretata. E questo rifletterà la maniera complessa nella quale la città si rappresenta… Cercando il senso della storia a partire dai suoi frammenti, troviamo un trionfo in una sconfitta e una sconfitta in un trionfo”.
laura.iamurri@uniroma3.it
L Iamurri insegna storia dell’arte contemporanea all’Università di Roma Tre