Proletario neozelandese
recensione di Paola Della Valle
dal numero di maggio 2016
John Mulgan
UN UOMO SOLO
ed. orig. 1939, trad. dall’inglese di Valentina Napoli, prefaz. di Marinella Rocca Longo
pp. 213, € 18
Kappa, Roma 2015
Il capolavoro di John Mulgan Man Alone, per la prima volta tradotto in italiano, è uno dei capisaldi della letteratura neozelandese degli inizi. Quando apparve nel 1939 fu salutato come il primo vero romanzo di una letteratura giovane, che fino ad allora aveva trovato il suo canale espressivo privilegiato nella rassicurante misura breve del racconto e ancora subiva il primato culturale della Gran Bretagna. A differenza di altri dominions dell’impero britannico, la Nuova Zelanda era terra di immigranti provenienti quasi totalmente dal Regno Unito e tardò a separarsi dalla mother Britain. Raggiunse infatti piena autonomia politica solo nel 1947. Proprio il padre di John, Alan Mulgan, noto giornalista e anch’egli scrittore, dichiarava nostalgicamente nel romanzo Home (1927) che per la sua generazione home era appunto l’Inghilterra, la madrepatria. Tipica era anche la rappresentazione idealizzata della Nuova Zelanda come lussureggiante e accogliente Eden: un insieme di cliché costruiti dall’esterno per attirare coloni. Un uomo solo contravviene a tutto ciò.
È una storia realista e disincantata, che smantella il ruolo di benigna benefattrice attribuito alla Gran Bretagna e sfata il mito della Nuova Zelanda come paese di Bengodi e paradiso naturale. Il protagonista Johnson, un giovane inglese reduce della Grande Guerra, decide di trasferirsi nel dominion dopo aver sentito cantarne le lodi da commilitoni neozelandesi. Inizia a lavorare come bracciante, poi come manovale nella costruzione della ferrovia, ma sia in campagna che in città le condizioni dei lavoratori sono pessime. La crisi del 1929 è giunta anche agli antipodi, l’economia è ferma, i salari crollano. Oltre all’isolamento umano e geografico, Johnson si trova schiacciato in un meccanismo globale che non offre speranze né possibilità e partecipa così alle manifestazioni di protesta ad Auckland contro un governo dominato da banche e finanza, che affama i lavoratori e protegge il sistema d’affari. In seguito viene coinvolto in una breve relazione con la moglie maori del suo datore di lavoro e accidentalmente uccide l’uomo. Decide però di non consegnarsi a una legge in cui non crede e difende la sua libertà con la fuga. Dopo l’attraversamento della catena delle Kaimanawa, immerso in una natura selvaggia e indifferente all’umano che mette a dura prova la sua sopravvivenza, riuscirà a lasciare il paese e a tornare in Inghilterra. Infine si arruolerà come volontario nella guerra civile spagnola perché, come lui stesso afferma, “la pace è più pericolosa”.
Johnson assiste al travaglio di un paese dall’economia instabile, totalmente asservito alle politiche coloniali della Gran Bretagna che, dopo averne sfruttato l’alta produttività agricola e casearia, lo lascerà in balia di se stesso durante la crisi. In un contesto storico-politico in cui i più poveri sono costretti a schierarsi l’uno contro l’altro per stare a galla e i rapporti umani si immiseriscono, Johnson sviluppa la consapevolezza che l’unico modo per non sentirsi “solo” è lottare insieme agli altri, far parte di un gruppo che persegue uno scopo, in questo caso la difesa dei propri diritti. Qui sta il senso del titolo Man Alone che non vuole celebrare lo stereotipo del Kiwi, l’uomo neozelandese che non rispetta la legge né le donne, ma prende spunto da una battuta del romanzo di Hemingway: “a man alone ain’ got no bloody fucking chance”. Narrato in una prosa piana e priva di pathos che la traduzione rispetta, il romanzo di Mulgan è stato definito “proletario”. Da sottolineare la ricca prefazione di Marinella Rocca Longo e la bella introduzione di Valentina Napoli, che aiutano il lettore ad inquadrare un’opera e una letteratura spesso poco note ai lettori italiani.
paola.dellavalle@unito.it
P Della Valle è ricercatrice di letteratura inglese all’Università di Torino