Hakan Günday – Ancóra

Trafficante di uomini a nove anni

recensione di Santina Mobiglia

dal numero di aprile 2016

Hakan Günday
ANCORA
ed. orig. 2013, trad. dal turco di Fulvio Bertuccelli
pp. 491, € 18
Marcos y Marcos, Milano 2016

La letteratura turca appare attraversata da una inquieta interrogazione del passato e presente del proprio paese alla luce di temi universalizzanti. Hakan Günday, già noto in Italia per A con Zeta (Marcos y Marcos, 2015) e vincitore in Francia con Ancóra del Prix Médicis 2015, si dimostra una delle nuove voci più interessanti. “La differenza tra l’Oriente e l’Occidente è la Turchia. Non so se sia il risultato della sottrazione tra Est e Ovest, ma la distanza tra essi è grande quanto la Turchia (…) Il nostro paese è un ponte antico, con un piede scalzo a Oriente e l’altro infilato in una scarpa a Occidente, da cui transita qualsiasi merce illegale”, scrive nel suo ultimo romanzo. Un romanzo duro, complesso, ambizioso nella costruzione ma di avvincente lettura per la cruda realtà che illumina tra le pieghe oscure dell’attualità: quella dei fantasmi invisibili che sono i profughi migranti in carne e ossa, nascosti nei tir o trattati come merce in deposito in antri bui durante l’inferno del viaggio che li porta dalle frontiere orientali dell’Anatolia agli scafisti greci, in cerca di un paradiso tutt’altro che garantito dall’esperienza dell’inferno. Daha (“ancora, di più”) è l’unica parola che sanno dire in turco: ancora acqua, cibo, aria… bisogni primari di sopravvivenza appesi al filo dei loschi interessi dei trafficanti a trasportare senza perdite la merce numerata ricevuta in consegna.

Un sottomondo devastato e senza leggi

Scritto in forma di confessione da parte del protagonista-narratore, figlio di un trafficante di esseri umani di nome Ahad (daha al rovescio), ha l’impatto di un perturbante Bildungsroman postmoderno il racconto di questo sottomondo senza leggi visto attraverso gli occhi spaesanti del piccolo Gazâ: “Mio padre cercava un apprendista (…) divenni un trafficante di esseri umani. A nove anni…”. E a nove anni fa morire asfissiato un giovane profugo afgano, chiuso nel camion in cui aveva dimenticato (forse per ribellione al padre tiranno?) di accendere il ventilatore. Quel mondo che prospera protetto dalla corruzione e dall’ipocrisia è l’unico che conosce e interroga, in cerca di risposte su dove stia il confine tra il bene e il male. Vittima e al tempo stesso aguzzino, nel suo ruolo di custode della cisterna sotterranea in cui sono imprigionati i migranti in transito, ne fa un campo d’osservazione antropologica delle dinamiche spontanee o provocate all’interno del gruppo, che diventa il crudele laboratorio sperimentale da cui trae conferma di una cupa visione della società e del potere come guerra di tutti contro tutti, stato di natura hobbesiano dove la sottomissione al dominio è fondata sulla paura.

Uno spartiacque del racconto è segnato dall’incidente apocalittico in cui il loro camion, con tutto il carico umano trasportato, cade in un precipizio mortale. Unico sopravvissuto, liberato dalla morte del padre, il giovane inizia una nuova vita, legge, studia, ma non riesce a evitare il risucchio nel cuore di tenebra del suo passato. Attraversa il delirio della follia, della droga, della violenza. A salvarlo sarà infine l’unico barlume di coscienza non acquietata che aveva continuato a farsi sentire in lui attraverso l’origami, una rana di carta, ricevuto in dono dal gentile afgano morto per causa sua. Il cui nome, Cuma, in turco Venerdì, appare un richiamo cifrato al Robinson, più che di Defoe, di Céline: un modello riconosciuto, quello del Voyage, in molte dichiarazioni di Günday che però apre uno spiraglio meno nichilistico e misantropico al termine della notte raccontata nel suo viaggio. Una storia che mescola inverosimiglianze, eccessi visionari con qualche ridondanza nella seconda parte, a spaccati di graffiante realismo nella messa a fuoco di una condizione di nuova schiavitù, come a scagliare sassi in molte direzioni per smuovere le acque stagnanti dell’indifferenza. Il modello celiniano in parte addomesticato vale anche per lo stile di scrittura di Günday, basato su un parlato ellittico, iperbolico, sarcastico che trova la sua forza nell’incalzante ritmo narrativo sincopato, ben reso nell’ottima traduzione.

santina.mobiglia@gmail.com

S Mobiglia è saggista e traduttrice

La recensione al libro di Gunday si inserisce all’interno di un approfondimento sul destino dei profughi siriani in seguito agli accordi Turchia-UE, scritto da Murat Cinar e pubblicato sul numero di aprile (riservato agli abbonati).

Sul tema dei migranti si è interrogato anche Gianfranco Rosi in Fuocoammare, vincitore dell’Orso d’Oro 2016 e recensito da Francesco Pettinari.