Puzzle di suoni e di incanti
recensione di Irene De Angelis
dal numero di settembre 2017
Gwyneth Lewis
L’ALBERO DEI PASSERI
ed. orig. 2011, a cura di Paola Del Zoppo
pp. 128, € 18,50
Elliot, Roma 2016
Vent’anni fa, nel 1997, usciva per i tipi di Seren Press Twentieth Century Anglo-Welsh Poetry, antologia magistralmente curata da Dannie Abse. La poetessa Gwyneth Lewis, nata nel 1959, era inclusa tra le voci più giovani, insieme alla collega Deryn Rees-Jones, classe 1968. L’ampia selezione spaziava da W. H. Davis e Edward Thomas agli immaginifici versi di Dylan Thomas, passando per il poeta-minatore Idris Davies, il poliedrico Tony Curtis e Duncan Bush. Brillante promessa di questo rinascimento poetico, Gwyneth Lewis, all’epoca, aveva pubblicato due raccolte in gallese e una in inglese. Diplomata in una scuola bilingue di Cardiff, ha compiuto gli studi a Cambridge, dove si è immersa nel canone inglese, per poi trovare ispirazione e libertà creativa durante il periodo di formazione trascorso negli Stati Uniti. Dal 2005 al 2006 è stata il primo poeta nazionale gallese. L’albero dei passeri, sua ultima raccolta in versi, ha vinto il premio per il libro gallese dell’anno nel 2012. L’attenta e appassionata traduzione di Paola Del Zoppo fa conoscere meglio in Italia questa autrice, finora quasi ignorata, con cui la studiosa si è già abilmente confrontata in L’assassino della lingua (2003; Del Vecchio, 2007).
Ricongiungere i nodi dell’esistenza
L’avifauna è un soggetto assai caro alla poesia: da sempre, osservando il cielo, l’uomo ha sognato di poter spiccare il volo, al pari dei suoi compagni alati. Per Gwyneth Lewis il canto degli uccelli è lirismo puro: l’ascoltatore attento non può che essere incantato dal suo ritmo, poiché anche le idee si esprimono attraverso la musica delle parole. La scrittura è vita, e la lingua della poesia, sia essa il nativo gallese o l’inglese “adottivo”, offre infinite possibilità di espressione. Le quattro sezioni di L’albero dei passeri hanno ciascuna, per titolo, un frammento del verso finale di Che dicono gli uccelli?. Le poesie usano metafore e tematiche ornitologiche per creare un linguaggio nuovo, apparentemente spontaneo ma in realtà controllato e misurato dalla voce poetica. Il canto/incanto poetico di Lewis lascia a tratti intravedere la possibilità del trascendente nell’immanente: “Che tu possa essere guidato ad ogni passeggiata / da un vago uccello che ti vola / davanti di un ramo (…). / Il tuo desiderio di un nome cresce. / Fringuello? Forapaglie? È l’oro / che volteggia tra le canne. / Sei in buone mani. Taci e seguilo” (Piccolo Giobbe bruno piumato).
Il componimento più riuscito della prima sezione è L’allevatrice di uccelli, scritto da Gwyneth Lewis in memoria di sua zia Megan. La terza strofa introduce nella lirica il tema della mortalità e delle lacrimae rerum, o dell’impermanenza: “Quando muoio / vorrei sentire uccelli che battono / alla mia finestra, sentire le luci / dei piccoli stormi che mangiano. Vorrei meritare quella litania: / picchio, passero, fringuello”. Tali preoccupazioni s’intrecciano, nella raccolta, con una meditazione accorata sulle fragili condizioni della cognata della scrittrice, malata di cancro. La vita, sembra suggerire Lewis, è fugace come un battito d’ali o il passaggio di una cometa: il tema delle transizioni si fonde con quello del linguaggio e dei luoghi dell’esistenza, entrambi centrali nella seconda sezione.
Con le ventuno poesie che costituiscono, nel complesso, Piuma, Lewis passa dalla metafora ornitologica a quella del patchwork e del lavoro a maglia. In Trapunta folle, parte integrante di Trapunte per donne senza bambini, Lewis lega metaforicamente l’atto poetico al dono della vita: “Non avere bambini è non avere rime / declinazioni, restare più integra di quanto vorresti. / Quando finalmente avrai chiuso / con il corpo e dovrai restituirlo / consunto. Ma se siamo immortali, / anche chi è senza bambini vive per sempre. / Se le parole sono il pianto di un figlio per la madre assente, / perché non posso rispondere io che ho tanto latte da dare?”. In questi versi affiorano ansie, cadute e cicatrici antiche, che continuano a far soffrire nel presente. Tuttavia la poesia, oltre che incantare, ha il dono di ricongiungere i nodi dell’esistenza. Ecco, dunque, la centralità della metafora del lavoro a maglia in Come si lavora ai ferri una poesia, commissionata dalla BBC Radio 4: “Tutto ha inizio con un nodo singolo / ai ferri. Parola e penna. Stringi un giro / nel nulla. Guarda. Vai avanti, ripeti (…) / Abbi pazienza, lega i ritmi vuoti / crea un tessuto da indossare o persino / imparare, se hai fortuna. Non è mai troppo // tardi per riprendere maglie cadute, ogni buco / un’idea di qualcosa che ti preoccupa.” Parte manifesto programmatico, parte preghiera, il componimento apre la raccolta alla dimensione della speranza, nella fiducia che la poesia, nel suo “puzzle di suoni” e di (in)canti, offra sempre la possibilità di ricominciare.
irene.deangelis@unito.it
I De Angelis è ricercatrice di letteratura inglese all’Università di Torino