Per chi sa quali possibili futuri lettori
recensione di Matteo Moca
dal numero di ottobre 2016
Guido Ceronetti
PER LE STRADE DELLA VERGINE
pp. 278, € 20
Adelphi, Milano 2016
Per le strade della Vergine va a costituire, insieme a Un viaggio in Italia (recensito nel numero di dicembre 2014) e Albergo Italia, una trilogia ben definita all’interno dell’opera di Guido Ceronetti, che si impone come importante testimonianza antropologica dell’Italia contemporanea, delle sue debolezze e dei suoi costumi. Se Raffaele La Capria, nel commentare i primi due libri, ebbe modo di dire che rappresentavano altrettante grandiose descrizioni dantesche da cui emergeva tutto l’orrore del disastro italiano e che costituivano “l’ultimo definitivo capitolo di quel viaggio in Italia romanticamente iniziato da Goethe e così miseramente finito ai nostri giorni”, tale definizione può essere estesa anche al recente Per le strade della Vergine. Questo libro è infatti uno zibaldone “per chi sa quali possibili futuri lettori”, che copre gli anni tra il gennaio del 1988 e l’aprile del 1998 e raccoglie pensieri sparsi, incontri, treni, stazioni, camere d’albergo, città, amicizie, morti e malattie, in un testo in cui, come anche in altre opere dello scrittore, come ad esempio Briciole di colonna o Lo scrittore inesistente, lampeggiano improvvisi bagliori di lucidità metafisica e di inaspettato quanto sconfortato umanesimo.
All’interno del testo ritorna spesso il nome di Stendhal: ma è la citazione da una sua lettera, apposta in esergo ai taccuini, che illumina circa il significato di questa opera: “Gray diceva che chiunque poteva scrivere un buon libro, ed era semplicemente la storia della sua vita”. Per le strade della Vergine è proprio questo, la storia di dieci anni di vita dell’autore e il tentativo di contraddire le parole di Kafka da lui stesso riportate: “Il mondo interiore si può soltanto vivere, non descrivere”. La differenza, rispetto agli altri due libri di viaggio, sta nel maggiore ripiegamento personale, che se prima costituiva un corollario rispetto alla narrazione dei movimenti per l’Italia, qui al contrario funziona come base su cui si innestano le analisi di quello che Ceronetti vede e affronta nella sua vita di tutti i giorni. È per questo che probabilmente è proprio Per le strade della Vergine il libro attraverso cui entrare nell’officina Ceronetti e individuarne i movimenti del pensiero e della lettura della realtà.
Se per questa sua natura non è semplice isolare temi ricorrenti, ci sono comunque nei taccuini alcune tematiche che affiorano a più riprese, con dolcezza e in punta di piedi, come se Ceronetti volesse solo indicarle al lettore attento la cui anima, come lui stesso dice, sarà ancora pura e “non contaminata”. Innanzitutto viene mostrato a più riprese il sentimento di anti-modernità dello scrittore torinese, che si organizza intelligentemente in opposizione a una tecnologia che in quegli anni iniziavan a diventare di massa, ai consumi inutili che deturpano la terra o alla cieca globalizzazione. Ceronetti, in definitiva, si oppone a tutti quegli aspetti della vita che turbano quello che lui stesso, prendendo a prestito le parole del filosofo Jules Lagneau, definisce come il significato più autentico dell’unico atto reale della vita umana, quello dell’amore: “Noi non agiamo realmente che quando amiamo; e non possiamo amare che a patto di giustificare perfettamente ai nostri stessi occhi un tale agire”.
È proprio l’amore l’altro tema che attraversa queste pagine, declinato attraverso un’analisi che parte dalla letteratura, dalla riflessione metafisica (“farsi nutrimento degli altri, fine trascendente della vera coppia umana”) oppure dall’esperienza personale, ben esemplificata dalla storia d’amore con la parigina Michèle. Con questa storia tragica, che si concluderà con la morte della compagna a causa di un tumore, Ceronetti ci consegna delle pagine che sono testimonianza di un’autenticità assoluta e, nello stesso tempo, di straordinaria forza. Basti pensare all’appunto numero 59, quello in cui il racconto del lento e inesorabile corso della malattia di Michèle si mescola ai fatti di cronaca nera, ai sogni inquietanti e alle note sulla letteratura. Perché probabilmente il libro di Ceronetti è un libro che parla soprattutto di malattia, sia essa la sua tachicardia oppure quella che porta alla morte i suoi compagni e amici. E se l’apparizione della morte è spesso attenuata attraverso arguti e fulminei coccodrilli (almeno due esempi: quello per Manganelli, “grande satirico ma senza il dono di divertire”, e quello per Alexander Langer: “Si è impiccato a un albero a Pian dei Giullari. Era disperato di non poter fare nulla per la Bosnia e per l’ambiente”), Ceronetti, con la sua cultura fortemente intrisa, verrebbe quasi da dire compromessa, con le Sacre Scritture, ritrova nella riflessione sulla morte il suo carattere più autentico, in quel mistero primordiale a cui mai riuscirà a dare risposta.
matteo.moca@u.paris10.fr
M Moca è dottorando in letteratura italiana a Paris Ouest e all’Università di Bologna